Guerra civile e fraternità



Il numero 392 di Aut Aut è dedicato al tema dell’Intelligenza artificiale (IA) e contiene un mio contributo dal titolo “Vita artificiale”.

Il numero è dedicato al tema dell’Intelligenza artificiale (IA) e il mio testo voleva cogliere l’espansione illimitata della Tecnica sullo sfondo dell’esaurimento del paradigma politico che ancora vige, anche se in una sua forma terminale. Uno dei nomi con cui questa forma può essere connotata è quello di Teologia politica.

Questo nome inizia a circolare nel tempo immediatamente successivo alla I Guerra mondiale, più precisamente nel 1922 e la cui paternità va ascritta a Carl Schmitt, primo tra i giuristi nel regime hitleriano e grandissimo intellettuale. Faremmo torto alla ricchezza del suo pensiero se lo bollassimo di nazismo per il fatto di avere preso parte a quel regime. Solo a titolo di cronaca, dal processo di Norimberga esce quasi illeso, essendogli stata tolta la possibilità di insegnare a causa del processo di denazificazione avviato in Europa dai governi alleati.

Il cuore della riflessione teologico politica sta nel testo paolino della II Lettera ai Tessalonicesi, che Schmitt commenta e che ispirerà la sua tesi forse più nota, conosciuta con il nome di rapporto amico-nemico.

Questa tesi veniva cucita soprattutto sul corpo politico internazionale del suo tempo e che a suo modo di vedere riguardava il rapporto conflittuale e problematico tra imperium romanum e protestantesimo. Così l’idea di Schmitt era di contrapporre la latinità cattolica al potere che il protestantesimo aveva assunto soprattutto nel nord Europa e nell’americanismo. In questa ottica, cioè quella del mantenimento di un equilibrio internazionale, la costruzione del nemico è un momento fondamentale per mantenere la pace: solo nella contrapposizione tra amico e nemico, il conflitto può essere mantenuto prevalentemente su un piano simbolico, evitando o ritardando il più possibile l’uso della violenza concreta. È un pensiero grandioso che cozza contro ogni presupposizione buonista riguardo alla valutazione dei rapporti conflittuali. Esso risponde alla realtà di quei fatti che nella politica internazionale abbiamo visto dispiegarsi innumerevoli volte.

La struttura amico-nemico è una potente chiave di lettura anche dei rapporti interpersonali: essa permette di fare a meno dell’altro, sostituendolo con una funzione in cui il pregiudizio su di esso è la precondizione per la nostra identificazione. Soltanto dicendo “no” all’Altro ottengo un posto in cui sentirmi come una mia proprietà. È piuttosto semplice verificare questo meccanismo anche nelle varie tappe evolutive dell’essere umano. L’assenza di contrapposizione è un momento particolarmente delicato tanto sul piano personale quanto su quello politico. I capi di Stato o i governi sanno benissimo che la coesione sociale interna viene ampiamente rinvigorita dalla presenza del nemico. A volte questo nemico è reale e di conseguenza anche la coesione ha una sua fondatezza, altre volte, molto spesso, il nemico viene evocato come un fantasma per ottenere lo stesso scopo su un piano per lo più immaginario. Soprattutto l’occidente è soggetto a questa particolare attitudine all’evocazione e, a volte, alla creazione concreta tout court di un nemico che, svolgendo la funzione di capro espiatorio, potrà essere in grado di mantenere in stabilità vari equilibri. L’Occidente è infatti affetto da una strutturale e permanente crisi valoriale che implica sempre il rischio di identificazione: cosa vogliamo, perché lo facciamo, qual’è il senso? Queste sono le domande, come si dice la domanda di senso, a cui l’Occidente non è in grado di rispondere e, forse, per fortuna. La politica partitica, fondata sulla contraddizione politica, sempre più apparente tra l’altro, se rispondesse a tali fondamentali questioni, compirebbe di fatto un suicidio con la conseguente sparizione della struttura partitica stessa.

Ad esempio la stagione della Guerra fredda ha avuto il pregio di mantenere saldo un equilibrio precario e bipolare: in esso il concetto di confine, di statualità territoriale, della logica del “io qui e tu là” era garantita e questa garanzia era rassicurante. In fondo ci siamo abituati alla logica della deterrenza nucleare come un aspetto familiare e rassicurante che ci ha fatto convivere con quel paradosso che teneva assieme pace e distruzione totale.

A guardarlo bene, questo paradosso, ha dell’incredibile, poiché ci ha indotti a considerare la paura seguita all’Olocausto giapponese, come un fattore di pacificazione.

Se però guardiamo con attenzione a questa funzione della paura, scopriamo che essa ci attraversa in ogni relazione, ponendosi proprio alla base di quella stabilità a cui mirava la concezione schmittiana.

Ora il momento della Crisi è quello in cui quel modo d’essere del sociale, termina, per un tempo più o meno protratto, il suo compito: è il momento in cui si attiva il conflitto che assume l’aspetto della guerra vera e propria, tanto nella dimensione interpersonale quanto in quella politico-sociale nella misura in cui coinvolge popoli o imperi.

Oggi uno dei fattori che rende la riflessione di Schmitt passibile di una revisione è che la separazione territoriale tra Stati è in gran parte apparente e con essa anche la logica amico-nemico. Agamben fa sua la tesi di Schnur secondo cui la dimensione globale e mondiale della ripartizione dei poteri fa si che una guerra in senso tradizionale non sia possibile, tanto a causa della trasversalità della potenza, quanto a causa dell’irruzione totale nel sistema mondo della tecnologia, nelle sue più diverse forme.

In questo sistema mondo non si tratterebbe più, quindi, di guerra o di conflitto nel senso in cui siamo abituati a concepirli, ma di guerra civile, cioè di guerra tra fratelli.

La parola stasis, fulcro della riflessione di Agamben, Homo sacer II, indica quella condizione di possibilità della guerra fratricida sempre possibile e sempre paventata.

Il punto è che, a causa della mondializzazione delle forze in gioco, non vi può essere un nemico in senso proprio, o in un senso tradizionalmente inteso. Ovunque si volti lo sguardo non vi sono che fratelli e quindi ogni guerra in essere o a venire non può non essere che guerra civile, ossia guerra fratricida. È la forma più orribile di conflitto che lascia sul terreno non solo i morti, ma anche ferite e traumi incancellabili. La ferita che la nazione italiana ha subito dopo il 1943, dopo l’8 settembre, non è infatti per nulla guarita, tanto che le istituzioni politiche, anche nella loro marcescenza, non sono che la conseguenza di una pacificazione mai avvenuta. Ancora oggi si discute sulla priorità di alcuni morti su altri, se gli ebrei meritino maggior rispetto degli infoibati fascisti ecc.

Come sempre accade, il trauma fissa il soggetto in una sorta di pietrificazione in cui la paura che ne segue gli garantisce un’identificazione precaria, ma apparentemente solida. La crisi è il momento in cui l’effetto del trauma, e quindi della paura, improvvisamente potrebbe venir meno, mostrando il debito che un’infanzia tradita ha contratto con un tempo ormai perduto. Proprio perché questo tempo è percepito come perduto, ritorna incessantemente a inquietare le relazioni.

La stasis in atto, la guerra civile, la guerra fratricida, pretendendo di assegnare all’Altro la sua verità più propria, opera in realtà un suicidio, poiché il fratello non costituisce un’alterità tra le altre, ammesso che qualcosa del genere esista, ma costituisce qualcosa che è il più prossimo, senza il quale noi stessi siamo destinati a perire.

In questa direzione troviamo le riflessioni, quanto mai attuali, di Gunther Anders quando ne L’uomo è antiquato afferma che la bomba atomica non è un’arma come le altre, che non risponde alla logica bellica, ma implica, per la natura della tecnologia che la costituisce, un presupposto che cancella la distinzione tra vincitori e vinti: nessuno può infatti vincere nella logica di una distruzione globale, una distruzione per la quale non occorre pensare distopicamente all’annientamento del genere umano; più realisticamente essa implica la fine della civiltà stessa. Questa fine può avvenire, come in effetti sta avvenendo, mancando la sfida posta dalla parola umano e questa sfida, terribile, è il poter essere a prescindere dall’opposizione conflittuale.

È abbastanza evidente che, soprattutto nelle ultime due crisi, quella pandemica e quella bellica, le voci che tentano di muoversi in questa direzione, non solo sono minoritarie, ma vengono anche criminalizzate proprio nella misura in cui vengono interpretate come propensioni al collaborazionismo con il nemico. La crisi non umanizzata o soggettivizzata, quindi, porta sempre con sé una verifica e una conferma del pensiero di Schmitt. Nella sua ottica, anche la guerra, come momento di crisi, è un passaggio ad una nuova definizione identitaria, cioè in definitiva una riconfigurazione territoriale.

La dimensione della guerra totale è stata inaugurata dal nazismo che coincide con il venir meno di quella paura stabilizzatrice: uccidere, in quel regime, era diventato un valore sociale affermativo, accolto anche da gran parte dei cittadini. L’indifferenza per l’Altro, che così viene destituito proprio dall’essere un’alterità, è ciò che ha caratterizzato il radicale antisemitismo nazista: l’ebreo infatti non era per lo più odiato, bensì considerato non umano e quindi oggetto di sanificazione per l’incolumità del corpo sociale. Il fenomeno del Nazismo appare quindi, piuttosto come il germe di un futuro che si staglia sotto i nostri occhi, piuttosto che come una rottura della storia.

La fine della paura, in assenza di civiltà, prende il volto non del coraggio, ma di quello della trance in cui lucidamente si compiono atti che nella loro natura sono folli.

Questo aspetto di assenza di coscienza, di un negativo che prende la sua strada senza un timone o senza un argine che lo contenga, attraversa tutte e tre le guerre mondiali: la prima scoppia senza che si sappia bene come, nessuno apparentemente la voleva e il Kaiser, afflitto da perfetto inebetimento, silura il suo generale più importante, Von Moltke, affidando ad un emissario delle trame inglesi la conduzione delle operazioni sul fronte francese, le quali, secondo i piani di Von Moltke, dovevano risolvere la guerra in 14 giorni e non 4 anni. Anche la II guerra è attraversata da uno strumento anonimo della storia, incarnatosi nella follia di Hitler. A questo proposito è utile rileggere le testimonianze del suo ministro dell’economia Heijlmar Schacht. Ma mentre le prime due guerre si inscrivevano, almeno parzialmente nello stile di governo statuale, la terza vede come protagoniste forze del tutto dislocate dal punto di vista territoriale. È questa deterritorializzazione che fa ascendere i cittadini di qualsiasi nazione a rango di fratelli universali.

Va però tenuto conto che la questione della fraternità è del tutto oscura e, al pari della guerra civile, pochissimo tematizzata; Agamben giustamente considera questa mancanza come un vuoto nella riflessione del diritto.

Dei tre imperativi della rivoluzione francese, solo i primi due hanno ricevuto la dovuta attenzione: la libertà e l’uguaglianza. Ma essi non possono inverarsi correttamente mancando il terzo. Forse, addirittura, la questione potrebbe essere stata mal posta fin dall’inizio tant’è che la fraternità coincide, nell’ideologia democratica corrente, con l’uguaglianza: la democrazia di fatto non conosce fratellanza, covando al suo interno la pianta della stasis, al pari di altre forme di governo, normalmente considerate riprovevoli.

La fraternità non si occupa di uguaglianza, il fratello non può essere l’uguale e non c’è legge che tenga o che si possa opporre alla tentazione della sua sopraffazione.

Aristotele, ne La politica, sosteneva che non vi può essere buon governo in assenza di una certa amicizia che avvinca a sé i cittadini della polis. Ora la questione della fratellanza si pone al di là dell’amicizia e dell’inimicizia, appartenendo ad una dimensione in cui massima distanza e massima prossimità all’altro coincidono mantenendosi su uno sfondo di indicibilità.

La caduta della relazione all’altro sul piano della fraternità o della fratellanza, implica sempre un pericolo mortale e lo sviluppo della guerra civile.

I miti sui fratelli omicidi abbondano: dalla prima coppia di fratelli delle nostre mitologie e cioè Caino e Abele, al mito di Romolo e Remo; ma possiamo risalire ancora prima ai miti aztechi o a quello egizio di Seth e Osiride.

La logica di queste efferatezze risponde sempre alla necessità di ricostituire la padronanza sull’eredità o sul territorio. Si tratta di miti cosiddetti di fondazione, della città, della comunità o di altro. L’Italia repubblicana si fonda così sulla sparizione (apparente) del fratello indesiderato. Il fratricidio, al pari del parricidio o dell’incesto sono pratiche tabuizzate nelle nostre società, ma con intensità diverse. Nella morale pubblica l’incesto è massimamente deprecato, benché senza dubbio più diffuso di quanto si pensi, mentre il fratricidio e il parricidio, anche se sanzionati normativamente come aggravanti dell’omicidio comune, indignano meno dell’incesto, a cui nell’immaginario è spesso associato lo stupro o la violenza. Va per altro segnalato che nella giurisdizione italiana non esiste un reato di incesto, in senso stretto; il reato è tale solo se offende la morale pubblica, cioè se diviene di dominio pubblico, divenendo così oggetto di attenzione da parte delle autorità.

È un piano scivoloso, poiché anche l’omicidio in un certo senso è tale solo se viene scoperto. Ma la soppressione di un altro essere umano è sempre, anche a livello potenziale, un crimine. Al contrario l’incesto non può essere ascritto a tale normatività.

Il fratricidio, al pari del matricidio e del parricidio, ha, al contrario degli omicidi normali, qualcosa di incestuoso, o meglio rappresenta una sorta di negativo dell’amore incestuoso. Si pone così come una negatività della negatività, un abisso in cui, assieme all’assassinato sparisce anche l’assassino.

Le tradizioni mitiche, che vanno comprese per quello che sono, cioè narrazioni figurate di traumi storici, ci dicono che il conflitto statico può essere risolto solo dall’intervento di una terza parte, nel mito da un Dio.

Questo ci insegna che la struttura del conflitto a due non prevede in sé una via d’uscita: gli attori rimangono sempre dei contendenti così che la terzietà è fondamentale per la composizione della guerra civile.

Ma attenzione, la composizione di un conflitto non implica necessariamente che il conflitto non esista più: esso rimane semplicemente in stato latente, mantenendo, in gran parte dei casi, la ferita della contesa sempre in stato di suppurazione.

Poiché il perdono, così come lo concepisce la cultura pop-cattolica è un’ideale mai raggiunto e mai raggiungibile, ma a cui è rassicurante fare ricorso, una vera cessazione del conflitto passa per una distruzione più ampia del conflitto originario stesso, una distruzione che atterrisce a tal punto chi resta, da fargli dimenticare la provenienza della sua violenza.

Se queste considerazioni sono corrette, allora dobbiamo esportarle sul piano mondo, poiché, come si diceva prima, non vi è più la possibilità di combattere contro l’Altro, bensì sempre e solo contro il fratello. Se volessimo declinare nell’attualità geo politica la questione, dobbiamo assumere con un certo rigore che tanto il popolo ucraino, quanto quello russo sono tra loro fratelli e fratelli nostri. Quello che rimarrà da queste distruzioni saranno le testimonianze di vergogna del popolo russo e la comprensione di quello ucraino per i fratelli russi che si sono vergognati. Così dal carteggio tra Eatherly e Gunther Anders scopriamo che un gruppo di liceali giapponesi scrivono al responsabile tecnico dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima, dicendogli di non serbargli alcun rancore e anzi di ringraziarlo per la sua opera di divulgazione e per il suo impegno politico contro l’orrore dell’olocausto nucleare.

La cosa tragica è che le generazioni che seguono a tali orrori, trovando legittimo nutrimento spirituale in queste testimonianze, non saranno in grado di servirsene per sventare altri orrori. La Storia così scorre su binari paralleli a quelli dell’umanità pietosa, ignara delle sue cure.

È questo sentimento che spinge Ingeborg Bachmann, quando si trova a Berlino per una borsa di studio nel 1963, a scrivere Nessuno deve appellarsi alla vittima, dove assume in sé il destino afasico di chi ha subito il torto della storia. Perfino scriverne risulta qualcosa di osceno o scabroso.

Allo stesso modo Auschwitz ha distrutto, di fatto, ogni pretesa di un riparo delle coscienze in una trascendenza salvatrice. È a questa nudità che ciascuno di noi dovrebbe tornare incessantemente per poter trovare una posizione umana di fronte alle catastrofi.

Il prima, la storia, è così il nostro futuro.

La guerra civile rappresenta quindi questo orizzonte estremo in cui nessuno è al riparo, dove ogni ideale si manifesta per la sua finzione, un orizzonte che dovrebbe mostrarci che dire qualcosa di sensato stando all’interno del conflitto è particolarmente difficile, se non addirittura impossibile. Allo stesso tempo porsi al di fuori del conflitto è quanto di più vergognoso sembra esserci. Il male, anche se non sappiamo identificarne il volto, richiede la nostra posizione, uno schieramento, un’enunciazione identificabile.

Se la dimensione planetaria dei legami, che coinvolgono tanto il vicino di casa quanto il popolo più lontano, ha raggiunto un alto grado di visibilità, allora questo orizzonte di guerra civile occupa ogni angolo della terra: il fratello è ovunque e perciò anche in nessun luogo. Questo smarrimento fa cadere quella barriera che era costituita dal sentimento della paura. E quando questo cedimento permette l’apertura ad una dimensione altra, l’imperio della tracotanza diviene l’orizzonte sostitutivo e apparentemente rassicurante.

Non essendoci il nemico, l’Altro, qualsiasi lotta, qualsiasi guerra, qualsiasi conflitto, portano con sé la fine, se non della Storia, almeno di una storia, o, in ogni caso, la fine di un ciclo storico o biografico nel caso di fratelli in senso stretto.

La crisi russo-ucraina appare come quello che potrebbe considerare un estremo tentativo di far funzionare la Storia sul binario della logica amico-nemico, nel tentativo di mantenere l’equilibrio delle forze ritardando, ancora una volta, il momento apocalittico che si staglia sullo sfondo della Stasis.

Il grande pensiero schmittiano sta nell’interpretare politicamente, nel gioco della Grande politica, come la definiva Nietzsche, il segno del katéchon, di quella forza cioè che risulta utile a dilazionare nel tempo la fine della storia. Il prezzo di questo ritardo, di questa attitudine a posticipare la venuta del Regno, sta nel fatto che esso dilaziona anche la venuta del Regno stesso e quindi della Verità. Il malinteso, la menzogna, prendere l’uno per l’altro, tutto ciò rappresenta la struttura implicita del katéchon e che oggi assume il volto di una continua accusa incrociata di dire il falso attraverso le fake.

Chi dice che la prima vittima della guerra è la verità, dice allo stesso tempo una cosa esatta e massimamente impugnabile, poiché non è chiaro a quale verità ci si riferisca. Direi piuttosto che la guerra, ogni conflitto, è l’apocalisse di una verità mancata, l’atto rivelativo che l’umanità compie per mettere in luce questa struttura che preesiste alla guerra stessa e che la fonda come estrema possibilità della menzogna stessa.

Il testo paolino, a cui i termini greci rimandano, fa però un passo ulteriore: la possibilità di delineare la struttura del katéchon è resa possibile solo per il fatto che Paolo assume la posizione profetica di chi si trova già a contatto col Regno: è da quel punto privilegiato che gli risulta possibile vedere la funzione del katéchon e il significato della venuta dell’antikeimenon, cioè, diremmo oggi, dell’anticristo.

Il ritardo consustanziale al katéchon, però è tale solo perché deve esaurirsi.

Il fatto che il tempo sia infiltrato dal ritardo, lo rende esattamente ciò che è. La normalità del tempo è quella di essere fuori-norma, di essere la struttura stessa della trasgressione e di fare di questo fuori-norma la propria regola. Il tempo della fine, allora, come fine del tempo, è la fine del fuori-norma e, allo stesso tempo, della forza della legge che ne delimita gli effetti. In questo senso il divenire trova il suo limite estremo e la sua smentita nella normalizzazione che è l’apoteosi dell’anormalità. Il testo paolino in questo senso è illuminante: il figlio della menzogna, l’antikeimenon, è anomos; egli non è il trasgressore, bensì colui che si situa al di qua del bene e del male e che è privo di riferimenti alla legge.

Dal punto di vista della guerra totale di tutti i fratelli, l’esito di tale conflitto è preceduto da uno spasmodico appello alla legalità e al lancio di invettive incrociate riguardanti la trasgressione di un patto di cui nessuno conosce bene i contorni, nemmeno gli attori direttamente coinvolti, poiché questo patto è edificato su di un intreccio inestricabile tra interessi economici e materiali in generale, salvaguardia del prestigio, delirio di potenza autocratica e di esercizio di una pietas del tutto autoreferenziale. Chi riduce il conflitto a puri interessi economici fa un grave errore perché le questioni in gioco sono ben più profonde o, per lo meno, inseparabili da quelle più facilmente individuabili. Esse dovrebbero, anche in una trattativa diplomatica, essere seriamente prese in considerazione.

La tesi di quanto vado scrivendo è in fondo che la struttura che sta a base della fratellanza di sangue e di quella politica delle nazioni, è la stessa e che, quindi, uguali sono le logiche che i conflitti, piccoli o grandi o che siano, percorrono.

L’esito catastrofico della lotta tra fratelli è una disperazione desertica, un annichilimento in cui la legge del legame, nella misura in cui si spezza definitivamente, rivendica massimamente i suoi diritti, pesando come un macigno soffocante e ineliminabile. La normalizzazione di un rapporto conflittuale è così foriera di un dolore ancora maggiore del conflitto stesso, esattamente secondo la logica del katéchon.

Ciò che precede sempre il Regno della Verità è quindi una normalizzazione in cui il contrasto è esaurito in virtù del fatto che il legame è spezzato, tutto il contrario di un legame realmente pacificato. La cosiddetta pax romana era esattamente questo esito catastrofico della politica di potenza dell’Impero che distruggeva il particolare per poi porsi a garanzia della stabilità politica in virtù di una normalità universale. Simone Weil ha dedicato a tale questione profetiche pagine nel capitolo “Hitler e la politica estera dell’antica Roma” in Sulla Germania totalitaria.

L’ONU, filiazione della Lega delle Nazioni, promossa dal presidente Wilson nel 1919, è lo strumento di questa pax, in cui l’astrattezza dei principi è semplicemente lo schermo, per il popolo, della volontà di potenza degli imperi. L’idea perversa di autodeterminazione dei popoli che la anima è ciò che produce ogni tipo di slittamento normativo, poiché la questione di quando sia lecito autodeterminarsi e quando no, si pone solo a determinate condizioni, che sono lo specchio dei rapporti di forza interni all’ONU stesso. Non occorre qui allungare il testo con gli innumerevoli esempi di uso manipolativo di questo assurdo principio.

Lo scopo finale dell’uso strumentale del principio di autodeterminazione è semplicemente l’assimilazione a sé delle differenze che l’Altro porta con sé.

Il regno di questa giustizia, in cui il katéchon ha esaurito la sua funzione è quindi l’indifferenza, cioè l’impossibilità di stare nella differenza proprio del regno dell’a-nomia.

Per questo il mio articolo, che ho citato nelle prime righe, voleva segnare lo scarto tra la Teologia politica e la Teologia tecnica, in cui il conflitto viene superato dalla trascendenza della tecnica in un regno in cui la trasgressione perde il suo significato, in virtù del fatto che il cuore di questa seconda Teologia sta nel poter fare ciò che è possibile fare e ciò che è possibile fare è giusto. La caratteristica di questa nuova fase, di questo nuovo ciclo della non-storia, è l’eliminazione della prerogativa della norma di legge, che si basa sull’infrazione e sulla colpa, ma non in un moto ascendente ed edificante, bensì attraverso la distruzione e l’indifferenziazione.

L’antikeimenon non mente, ma mostra la verità della menzogna su cui si basa ogni rapporto di forza. La fratellanza, l’affratellamento ha allora il compito apocalittico di mostrare questa struttura, proprio nel luogo in cui il ben-pensismo pretende non ci sia.

La lotta mortale tra fratelli è l’apocalittica che rivela la Verità della Menzogna.

L’assenza di fratellanza è il regno dell’indifferenziato, ma, contraddizione che va esplorata, la differenza che la fratellanza porta con sé è sempre gonfia dei venti della guerra. Essa quindi aspetta sempre una sua redenzione, la capacità, da parte di ciascuno di noi, di rivisitarne la contraddizione e il conflitto che in essa sono inscritti.

Come si vede l’idea di fraternité è un’astrazione universalistica che deve essere ancora riempita di particolarità e di concretezza, è un termine che ha ancora bisogno di una struttura, anche politica in senso ampio, in grado di darle un volto intellegibile.

Non dobbiamo peraltro tacere che essa ha un suo omologo femminile, la sorellanza, che il nostro lessico usa con tenace parsimonia.

Mentre il fratres rimanda alla conventicola e alla confraternita, la soror, rimanda a qualcosa di maggiormente aperto, di trasversale. Tanto la confraternita accoglie i con-fratelli solo a determinate condizioni e sulla base della necessità di far propri determinati principi, quanto la soror non ha confraternita in senso stretto, se non la condizione di non aver alcuno sposo che non sia la Verità del Regno. La sororanza introduce quindi un elemento erotico nella struttura sociale che manca del tutto, almeno in senso esplicito, alla fraternitas.

Deve ancora essere ricordata Simone Weil su questo versante, poiché dall’esilio londinese, nel 1943, aveva proposto a de Gaulle la formazione di un corpo di crocerossine, soror laiche o religiose, suore in altri termini, che fossero addestrate a essere paracadutate sulle linee di guerra per assistere i feriti di entrambi i fronti.

Un progetto ritenuto folle e suicida, al quale non fu mai dato corso, ma una follia che appariva a Simone Weil necessaria per contrapporre un’immagine altrettanto forte rispetto a quella dell’hitlerismo.

Il femminile della fraternità non può quindi schierarsi su un fronte, piuttosto che su un altro, rivendicando per sé una sofferta neutralità, una resistenza alla logica del conflitto sempre accompagnata da discorsi partigiani. La questione allora è quale parola sia possibile proferire per rendere giustizia al debole e identificare l’aggressore, nella consapevolezza che entrambi sono giocati da forze più grandi di loro.

Ci sono esempi di fratellanza o sorellanza che hanno stravolto la logica conflittuale insita in questo tipo di relazione. Tra essi mi piace ricordarne uno in particolare: quello tra Vincent e Theo van Gogh. Dalle loro lettere traspare un rapporto che non possiamo dire altro che fraterno, intriso indissolubilmente da amore amicale e di aspirazioni artistiche.

Lo potremmo far assurgere a paradigma di una fraternità virtuosa; ma dobbiamo sapere che prima di Vincent c’era stato Vincent, il fratello morto, davanti alla cui tomba, ogni giorno, Vincent passava andando a scuola. Un memento mori senza il quale, probabilmente, ogni fraternità costruttiva è impossibile. In ogni caso, il fraterno – manca la parola femminile – ha a che fare direttamente con il rischio mortale, sia nel caso in cui appaia sotto la forma della distruzione, sia in quello in cui esso assuma la morte come fondamentale limitazione di quella tracotanza che implica sempre la trasgressione di un patto e il superamento della linea di confine tra le parti.

Contrariamente a quanto siamo abituati a credere, la Fondazione non avviene grazie al Patto, ma, al contrario, attraversandone il tradimento.



Bibliografia


S. Paolo, II Lettera ai Tessalonicesi.


Carl Schmitt, “Teologia politica”, in Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino 2013.


Gunther Anders, L'ultima vittima di Hiroshima, Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica, Prefazione di Bertrand Russel, a cura di Micaela Latini, Mimesis 2016.


Günther Anders , L’uomo è antiquato, trad. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, 2007.


G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico Homo sacer, II, 2, Bollati Boringhieri, 2019.


Simone Weil, Sulla Germania totalitaria, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1990.


Alessandro Di Grazia, “Vita artificiale”, in Come pensa la macchina? Incognite dell’Intelligenza artificiale, Aut Aut n° 392, Il Saggiatore 2021.














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