Il dono, l’altruismo efficace e il capitalismo selvaggio

 


L’articolo Uno strano tipo di altruismo, pubblicato su Internazionale 1491/2022 mi sollecita a fare alcune riflessioni, poiché attraverso il fenomeno del movimento per l’altruismo efficace, l’effective altruism, vengono in luce alcuni nodi, teorici oltre che politici ed esistenziali, di grande attualità.

Alcuni dei temi che ricorrono, agganciati alla parola “altruismo”, sono carità, beneficenza, efficacia, donazione, filantropia e dono. Prima di fare delle considerazioni sul contenuto dell’articolo mi pare necessario fare una premessa.

La pratica del dono è stata oggetto nel ‘900 di un fondamentale studio etno antropologico di Marcel Mauss, uno studio non realizzato sul campo, ma viaggiando attraverso i libri di una biblioteca. È il testo che più di ogni altro ha attivato riflessioni filosofiche, sociologiche e antropologiche sul significato della gratuità.

La dimensione del dono, la sua pratica sociale, evidenzia Mauss, più che appartenere all’economia si rifà a questioni legate al prestigio di una certa parte sociale rispetto ad un’altra. Già da subito possiamo comprendere che donare è una pratica ambivalente e la radice protogermanica “giftiz” registra questo fatto con precisione: “gift” ha tanto il significato di dono, appunto, quanto quello di veleno.

Al di qua delle Alpi invece non abbiamo niente del genere poiché la parola richiama un altruismo senza ombre. La più cattolica civiltà latina cala uno dei suoi assi migliori e più produttivi affiancando a questa parola un “per” formando così la parola “perdono”.

In questa parola c’è tutto: la gratuità, la superiorità, la trasformazione della vendetta in atto di bontà senza che nulla venga chiesto in cambio. Perdonandoti ti offro gratuitamente qualcosa che compensa il tuo male.

Possono scatenarsi qui le riflessioni più disparate: per perdonare devo essere affrancato e privo di quel male che ho subito; la ferita subita, attraversando il mio corpo, assume l’aspetto del rancore e il perdono avrebbe perciò il doppio valore di sanare il male altrui e, assieme ad esso, anche il mio. Perciò, in questo sistema di contrappesi, una qualche forma di trascendenza, Dio, la natura o la Giustizia, ci verrebbe in soccorso per portare a compimento un’operazione altrimenti impossibile. Solo Dio può riassorbire in sé il male e trasformarlo in bene.

Singolarmente nessun uomo può sostenere il peso di una tale superiorità. Non è un caso che dove si sviluppa una cultura che fa a meno di Dio, nome per ogni metafisica possibile, il tema del perdono perde consistenza e peso a favore di pratiche di riparazione, possibili o impossibili, del tutto umane e legate all’esercizio di una giustizia temporale.

Il dono, però, è attraversato anche da altre problematicità, inscritte proprio nelle coordinate di quel cristianesimo che ne ha valorizzato la pratica: se dono ciò che ho in sovrappiù, posso ancora parlare di gratuità? A rigore, questo il paradosso cristiano, potrei donare solo ciò che mi manca.

Cedere ciò che mi è superfluo o non del tutto necessario ci impedisce di parlare propriamente di dono, poiché solo espropriandomi di ciò che mi è assolutamente necessario, posso parlare della gratuità della mia azione.

L’ebrea Arendt, distanziandosi dal dettato cristiano, tenta di risolvere la questione de-assolutizzando la portata del dono e del perdono, affermando che la buona azione deve rimanere assolutamente anonima. Sarebbe l’anonimato quindi a garantire una dimensione di gratuità e non l’oggetto o il bene in sé. Su questo piano possiamo intravedere una pratica realmente possibile: infatti privarmi di ciò che mi è necessario alla vita appare insensato, anche se possibile per i motivi più diversi. La rinuncia alla pubblicità invece è necessaria per garantire una gratuità che non ha nulla di materiale: essa coincide con la rinuncia ad una quota di egoismo, senza la quale la mia gloria personale si innalza sullo sfruttamento della mancanza altrui. L’azione virtuosa dovrà quindi rimanere ignota.

Mentre l’anonimato permette al destinatario del dono di responsabilizzarsi di fronte al bene che riceve, la sua pubblicità ha un’inevitabile effetto di infantilizzazione. Chi mi ha beneficato si erge al mio cospetto come un Dio e in questa posizione assume la figura di chi potenzialmente può dare la vita o la morte.

È la conclusione a cui giunge Mauss quando rileva che la festa, condotta sullo scambio di doni, repentinamente può trasformarsi in guerra. Il prestigio di chi dona di più può essere insopportabile per il ricevente e scatenare il suo risentimento. Banalmente è ciò che spesso avviene durante i riti natalizi da cui siamo appena usciti. Un momento dell’anno che sovente trascina con sé vari malumori. Fare un regalo, un presente, è qualcosa che va calcolato, non ha nulla di spontaneo poiché mette in gioco la presenza della mia presenza presso l’altro. Sono sempre presente con un presente, e ciò rappresenta già una potenziale dismisura all’interno di una relazione. Essa è poi rafforzata dalla dismisura possibile del valore tra il dono che si offre e quello che si riceve.

Ma, al di là di questo, ciò che qui interessa è il dono nella sua forma caritatevole, la cui pubblicità, si diceva, produce un effetto regressivo che lede la dignità di chi riceve.

Ciò che in ambito materiale è rappresentato dal dono, in ambito morale si configura invece come assoluzione spirituale.

Da questo punto di vista non c’è nulla di più immorale dell’assoluzione in spirito, senza che a questa corrisponda una qualche forma di espiazione concreta del proprio delitto.

Questa forma di assoluzione è esecrabile tanto dal lato della comunità, quanto, e forse di più, dal lato del reo. L’impossibilità di espiare materialmente potrebbe infatti risultare una condanna ben peggiore del carcere, poiché essa non ha modo di estinguersi, anche se questo sarebbe vero se l’espiazione fosse soltanto una questione privata, cosa che regge l’istituto della confessione, mentre il danno perpetrato ad altri è per definizione pubblico e alla pubblicità deve essere riconsegnato.

Va sottolineato che, in realtà, la giustizia e la legge dell’uomo, non sono destinate a colpire il soggetto, ma a permettere un riconoscimento sociale agli offesi, anche attraverso la limitazione della libertà del colpevole. La grande conquista, sempre vacillante e in pericolo, dello stato di diritto sta nell’aver, per quanto possibile, ridotto al minimo la portata della condanna morale a vantaggio di processi di riequilibrio di ciò che il delitto ha prodotto in termini di offesa alla società. Per questo di fronte ad una sentenza ingiusta tutta la collettività insorge.

Sembra dunque che il dono del perdono risponda ad una giustizia di un grado inferiore a quella umana esercitata nello stato di diritto.

In ogni caso si vede che il principio dell’anonimato ha un ruolo fondamentale nell’esercizio della giustizia nello stato di diritto, cosa che si condensa nelle spesso abusate parole “La giustizia è uguale per tutti”.

Bisogna dire che la parabola del buon samaritano è un magnifico esempio del rapporto tra gratuità e anonimato. Essa purtroppo è sempre stata letta ideologicamente dal cattolicesimo e sarebbe un compito importante restituirle il vero senso come Ivan Illich ha tentato magistralmente di fare in Pervertimento del cristianesimo.

Ma, tornando alla questione economica, attraversata inevitabilmente dalla gratuità, bisogna dire che ciò che risponde maggiormente alla riflessione di Arendt è il prelievo fiscale. Esso è infatti del tutto anonimo e i suoi benefici si estendono tanto a chi dà di più quanto a chi dà di meno.

L’idea del prelievo fiscale è un’invenzione recente, trovando in Alexis de Tocqueville un suo precursore. Siamo quindi nella prima metà del XIX secolo nella fase dello sviluppo industriale del capitalismo. Una forma primitiva di Stato sociale era a quel tempo ancora caratterizzata dalla pratica della beneficenza. Il povero, sebbene sfruttato, doveva anche essere aiutato e di questo si incaricavano prevalentemente le conventicole delle mogli dei nuovi capitalisti industriali o dei possidenti latifondisti. È abbastanza chiaro come formazioni sociali del genere siano strettamente imparentate con l’ideologia cattolica, ma anche con quella protestante nelle sue forme più rigide. Essa è sostanzialmente schizofrenica e interessata nella misura in cui stabilisce il circolo perverso dello sfruttamento e del dono. L’uno non è senza l’altro, come non è possibile pensare la salvezza senza la colpa. Il dono della carità, nel primo capitalismo, non è altro che la trasposizione del principio della redenzione nella sfera religiosa. Nelle forme rigide del protestantesimo, come in Calvino, questo rapporto viene teso al massimo, individuando nell’insuccesso sociale ed economico l’esito dell’assenza di un adeguamento al piano provvidenziale di Dio. Tale concetto, trapiantato nel mondo economico, ha prodotto quella cultura della performance che tutt’oggi è in vigore. Su tale questione si attesta la tesi di fondo che Weber mette a punto nel suo saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Non è certo una novità il legame strutturale tra colpa e debito; coerentemente il tedesco ha per entrambi i significati la parola “Schuld”.

Lo scarto che ci permette di passare dal piano di una metafisica del dono e della colpa a quello della pratica del debito e del risarcimento, si consuma tutto nella sostituzione e eliminazione di due lettere: dalla provvidenza si passa alla previdenza.

Nella prima non occorre che ti preoccupi, se non di essere adeguato alla precettistica che ti viene insegnata; i problemi della temporalità e della morte sono esclusi, poiché il piano provvidenziale è trascendente e comprende in sé, nella totale simultaneità e coesistenza delle tre estasi temporali nel piano divino, tutto il tuo destino, dal momento in cui compari su questo suolo, al momento in cui te ne vai e oltre.

Con il piano previdenziale invece le cose si presentano rovesciate: è il soggetto che si deve preoccupare del suo futuro, che dona a se stesso la possibilità della vita e della trasmissione della sua volontà. Allo stesso tempo il piano previdenziale è l’esito del contributo anonimo della comunità. Il fatto che tali categorie – previdenza, comunità e futuro – siano oggi quasi impronunciabili, lungi dal dimostrare che non sono necessarie, dimostra invece tutto il peso della loro sparizione.

Nell’economia del primo capitalismo assistiamo ad una strana sintesi tra questi due piani, quello provvidenziale e quello previdenziale, in quanto il nobile, il ricco o il diversamente potente, si occupava anche di fornire alcune garanzie di sopravvivenza.

In un certo senso il luogo di Dio stava per essere occupato all’economia. La successiva costituzione dello Stato nazionale ha potuto, anche se con violente contraddizioni, incarnare lo scioglimento del rapporto personale rispetto ai mezzi di costruzione e riproduzione della vita. La parola “padrone”, almeno, oggi non è più proferibile. E padrone è parente stretto di Signore, soprattutto nella lingua inglese, appellativo onnipresente di Cristo Gesù. Il punto che segna una differenza sostanziale con quanto ancora oggi accade nello stato sociale, è che il rapporto tra chi dava e chi riceveva era ben definibile, i contraenti si conoscevano e si frequentavano.

L’industrializzazione ha portato profonde trasformazioni in questo assetto post-feudale, introducendo un elemento di anonimato in tutti i rapporti, cosa che oggi caratterizza la società non solo verticalmente, ma anche, e soprattutto, orizzontalmente.

Lo sviluppo del capitalismo post industriale e digitale ha inferto il colpo decisivo all’idea di comunità, frammentando e atomizzando il tessuto sociale e sostituendo al termine collettività quello di flussi di dati e di bit. È il flusso che determina la community.

Questo tracciato verso lo svuotamento, reso il tratto caratteristico del nostro presente dal processo di smaterializzazione che il capitalismo finanziario e digitale trascina con sé, va di pari passo con la caduta verticale della rappresentatività dello Stato e della sua sovranità. Così il compito della sovranità dello Stato risulta essere corrosa dall’interno e dall’esterno, essendogli impossibile svolgere pienamente quella funzione mediatrice per la quale in definitiva era stato concepito.

La finanziarizzazione dell’economia ha tolto agli Stati sovrani gran parte delle loro prerogative, senza per altro fornire un contrappeso.

In questa congiuntura nuovi e vecchi attori si sono proposti a garanzia del mantenimento della compagine sociale.

I grandi potentati finanziari o le gigantesche compagnie del mercato digitale occupano parecchi di questi spazi lasciati liberi dallo Stato.

In Italia, il culmine di questa lacerazione è stata raggiunta dalla legge Fornero che ha prodotto i famosi circa 300.000 esodati – le virtualità lessicali in questi casi fanno la felicità degli ermeneuti – gente che non poteva né lavorare, né percepire la pensione per alcuni anni.

I ragionamenti dovrebbero essere qui elementari e, forse, nella loro linearità, perfino ingenui. In ogni caso mi dovrei porre la domanda: come mai il mio lavoro e il lavoro della comunità non producono una ricchezza sufficiente a garantirmi la riproduzione della vita quando non sono più in grado di lavorare? Dove sono finiti i miei soldi? Come mai la società, soprattutto nelle sue rappresentazioni più conservatrici, dovrebbe essere fondata sulla famiglia, ma poi se lavora uno solo dei coniugi, generalmente, la ricchezza prodotta è insufficiente a sostenerla?

Queste voragini di natura politica, prima che economica, sono un sintomo che va inquadrato in un assetto della società di tipo neo arcaico e addirittura, nella sua struttura intima, pre-feudale: il cittadino è sempre di più posto direttamente a contatto con gli spiriti del capitalismo tecno-finanziario. Uno scontro durissimo e allo stesso tempo morbido. Una contraddizione soft, poiché l’uomo medio occidentale desidera alimentare con i suoi consumi proprio quelle strutture, tanto gigantesche quanto invisibili, per non dire trascendenti, che lo pongono in schiavitù. Benché in forma altamente anonima, il rapporto tra cittadino e potente assume nuovamente quell’aspetto tipico del periodo precedente la formazione dello Stato nazione. Forse per questo tutto ciò che giunge dalle piattaforme assume una forma user friendly, colloquiale, dove il “tu” impera sovrano e le grafiche accattivanti si sprecano. Solo che con l’economia delle piattaforme assistiamo a un processo di pastoralizzazione capillare: mentre nelle radici feudali del capitalismo tutti conoscevano il Signore, ma il Signore non si curava dei sudditi, oggi nessuno conosce il volto del potere, ma esso raggiunge e si cura di tutti e di ciascuno, per dirla con una formula foucaultiana.

Queste trasformazioni appaiono come un processo di restaurazione delle origini selvagge del capitalismo, come se tali processi stessero per completare un giro che invoca l’esercizio delle analogie.

Lo sviluppo dello stato sociale di matrice keynesiana, che ha avuto il suo momento glorioso nel secondo dopoguerra, sembra irrimediabilmente compromesso e in continua lotta con contro movimenti di tipo reazionario e di restaurazione. Sullo sfondo di questo scenario, la vittima designata è stata la cultura della sinistra dalla quale ci si aspettava una forse impossibile risposta in termini di difesa sociale a fronte della finanziarizzazione dell’economia. Una storia che sembra, quindi, al termine, un momento rispetto al quale l’articolo da cui sono partito ha qualcosa da insegnarci.

Uno strano tipo di altruismo parla di un movimento recentissimo, ma già molto solido, che si è sviluppato intorno al 2015 a partire dalla teoria dell’altruismo efficace. Si tratta di una teoria matematico-filosofica rivolta ad applicazioni immediatamente pratiche, tanto da definirsi come etica pratica. Lo sfondo è una riattualizzazione dell’utilitarismo, solo che alla mano invisibile viene sostituita una mano visibile. Se l’idea di Smith era quella di un’economia naturalistica in cui la ricchezza avrebbe prodotto una ricaduta spontanea in termini di benessere della comunità, il movimento per l’altruismo efficace veste il guanto di questa spontaneità, dirigendone le dinamiche. Gli strumenti principali per la realizzazione di questa idea sono le piattaforme digitali.

Empatia e fatti concreti sono i due poli attorno a cui l’altruismo efficace ha individuato i suoi compiti. Il suo fondatore è MacAskill un giovane filosofo, ora professore associato all’università di Oxford, che si è posto il problema di identificare l’azione che ha migliore riuscita in termini di benessere complessivo. Le conclusioni di questo calcolo, come dice la giornalista Linda Kistler, collaboratrice del Financial Time, sono controintuitive, in quanto il calcolo previsionale, basato su due unità di misura, il qaly e il waly, indicherebbe che a lungo termine le scelte che producono il maggior benessere non si basano su risposte morali a situazioni immediate, ma pensando alle trasformazioni future calcolabili in termini temporali di decenni se non di secoli.

Il qaly è la misura della salute per individuo nel tempo; in altre parole si vuole misurare per quanto tempo un determinato soggetto si mantiene in salute. Per non farsi mancare nulla MacAskill ha introdotto il waly che misura il valore del benessere emozionale nel tempo.

Il longtermism, in italiano lungoterminismo o lungotermismo, prende in considerazione i tempi lunghi per pensare agli effetti di grandi problematiche, soprattutto il rischio esistenziale dell’utilizzo dell’IA, cioè la possibilità dell’estinzione del genere umano e il biohaking. Altri temi come il cambiamento climatico, la sfruttamento del lavoro e dei poveri o lo sfruttamento violento degli animali, prima presenti, progressivamente sono stati marginalizzati all’interno dell’agenda del movimento.

La riedizione dell’utilitarismo consiste sostanzialmente nel sostenere che mantenere e incentivare i capitali aziendali è necessario e opportuno perché ciò garantirà una maggiore possibilità di fare il bene verso chi è bisognoso. L’esempio, illuminante, che la giornalista riporta è quello del medico che lavora in un ospedale africano e che garantisce 300 qaly all’anno, mentre se aprisse uno studio a Londra potrebbe guadagnare molto di più e generare un maggior numero di qaly. La novità di questa riedizione della mano invisibile, come si diceva, è che le aziende non solo sono interessate al profitto, ma decidono a tavolino la percentuale, minimo il 10% degli introiti, da destinare a beneficenza, donazioni o altre forme di dono verso realtà socialmente qualificate.

Non bisogna pensare che tutto ciò sia una bizzarria teorica: personaggi come Elon Musk o Moskowitz, cofondatore di Facebook, investono nella rete dell'altruismo efficace milioni di dollari; si tratta solo di nomi esemplari, poiché le donazioni alle istituzioni della rete provengono da moltissimi soggetti e sono generalmente piuttosto cospicue.

Il cuore di questo sistema di istituzioni benefiche è un sito di consulenza gestito da MacAskill, la cui mission è indirizzare i soggetti che vogliono unirsi a questa utopia tesa a identificare i migliori beneficiari. Il sito si chiama 80.000 hours1, cioè il tempo medio che una persona trascorre lavorando nella sua vita. Al di là delle crisi di sistema, come la bancarotta di un personaggio di spicco del mondo delle criptovalute, fervido sostenitore dell'altruismo efficace, o la circolarità degli investimenti ormai indirizzati quasi esclusivamente alla ricerca tecnologica nei due ambiti di punta dell’IA e del biohaking, alcune considerazioni critiche di fondo sono d’obbligo.

Forse occorre partire proprio da questo ultimo dato: la circolarità o autoreferenzialità nell’utilizzo dei finanziamenti. Il ragionamento che ha spinto a questa situazione è abbastanza semplice: in termini di longtermism qual’è l’azione migliore per prevenire una catastrofe esistenziale provocata dallo strapotere dell’IA? La risposta è immediata: aumentare il livello della ricerca in questo ambito, in modo tale da dotarsi degli strumenti tecnologici adeguati. Questo processo risponde a un semplice ragionamento: i problemi che abbiamo e che dovremo affrontare sono prodotti dallo sviluppo galoppante delle tecnologie. Ma solo la tecnologia può risolvere i problemi che essa stessa impone e produce! Ovviamente ci possiamo chiedere: perché dovremmo credere che la spirale della crisi e del problem solving ad esso connessa dovrebbe chiudersi? Vediamo anche qui all’opera l’assenza di funzionamento di una struttura di mediazione: essa dovrebbe frapporsi a tale spirale introducendo un’istanza critica sul senso del fare tecnologico. Ovviamente il verbo “dovrebbe” ci restituisce tutta la difficoltà di questa prospettiva. Quello tecno-scientifico si pone quindi come l’esercizio di un potere assoluto, o in via di assolutizzazione, la cui portata sembra essere superiore a quella prodotta dai capitali finanziari. Non possiamo nella pratica considerare distinte queste due istanze, ma dal punto di vista teorico, ma in parte anche pratico, devono esserlo assolutamente. Quello tecno-scientifico appare sempre più come un potere di tipo religioso e, difatti, bene fa l’autrice dell’articolo da cui siamo partiti, a rilevare il carattere religioso di questo movimento. Per la precisione si tratta di una teocrazia che si auto alimenta e che non ha al di fuori di se stessa alcuna forma di potere di controllo o di limitazione. Forse per capirci bene, possiamo stabilire un confronto con il comportamento del Vaticano rispetto ad alcune questioni spinose. Lo Stato Vaticano è una teocrazia a tutti gli effetti, immersa nell’Europa liberale e democratica, rispetto alla quale la UE e gli stati membri si rapportano con una deferenza che non può non essere considerata un sintomo importantissimo. In ogni caso, di fronte a questioni di rilevanza pubblica notevolissima, il Vaticano ha potuto sottrarsi al compito di renderne conto; peraltro non ha nemmeno istituito al suo interno alcun organismo terzo e indipendente per fare chiarezza. Mi riferisco ad esempio alla questione della pedofilia affrontata sempre nella logica di poteri le cui funzioni si sovrappongono. Altro caso clamoroso che oggi torna alla ribalta grazie ad una serie Netflix (sic!) è quello di Emanuela Orlandi. Pur esistendo, la magistratura vaticana, essa non ha mai fatto alcuna indagine. Sono solo degli esempi dell’uso di poteri privi di bilanciamenti e quindi di autonomia. Una situazione che, appunto, caratterizza sempre maggiormente lo sviluppo delle tecno scienze. Esse si comportano esattamente come una teocrazia, però illimitata sia in termini di confini geografici, sia in termini di sbilanciamento dei poteri.

Come si vede dalle semplici notizie riportate dall’articolo, questa dinamica sposta capitali enormi, in parte poi reimmessi nel circolo sotto il titolo di dono. È la gratuità il motore nobile dell’operazione, una gratuità simile a quella di cui usufruiamo utilizzando facebook o altre piattaforme.

Ora qui arriviamo ad un’altra questione fondamentale: gli enormi capitali che circolano e sono veicolati dal mondo digitale, prosciugano la ricchezza sui territori. Il capitale del bit, il bitcoin è solo la punta estrema di questo processo, è come l’instaurarsi di una circolazione sanguigna extracorporea. Il corpo del paziente è vivo, ma privo di ogni funzione autonoma.

L’economia reale è soppiantata da quella virtuale e in questo stato di vita sospesa, tutti i termini che conosciamo, i nostri paradigmi culturali e politici, sono quasi del tutto inutilizzabili.

L’impoverimento dell’economia reale produce un solco sempre maggiore tra lavoro e riproduzione della vita. Il sistema pensionistico, la previdenza, appare sempre più un lusso, appannaggio di categorie della società che vanno gradualmente restringendosi. È in questo scenario che la restaurazione della provvidenza diviene un fatto concreto.

Il cortocircuito tecno scientifico trascina con sé anche quello sociale economico. L’economia finanziaria prosciuga il bene comune e poi, attraverso l’altruismo efficace trova uno strumento, apparentemente, utile a sanare tale contraddizione.

Come nel caso della spirale tecnologica, ci troviamo di fronte alla spirale tecno sociale in cui chi mi sottrae la ricchezza prodotta con il lavoro, a cui appartiene anche il piano previdenziale, si pone poi come colui il quale è in grado di sollevarmi, per quanto compatibile con la conservazione del capitale, dal rischio della mia povertà, o meglio di calcolare al meglio la povertà senza che ciò produca fenomeni sociali di ribellione. Nel capitalismo delle piattaforme la parola d’ordine, guarda caso, è performance. Essa è calcolata fin nel dettaglio dalle statistiche automaticamente prodotte dagli algoritmi che mettiamo in moto. Quanti clic, quante visualizzazioni, da quali paesi, da quali città ecc., tutto può essere monitorato nel dettaglio, meno nome e cognome di chi ha compiuto l’azione digitale, a salvaguardia della privacy.

Il movimento effective altruism rappresenta l’espressione dell’abbandono del piano previdenziale per un ritorno a quello provvidenziale. Solo che ora la trascendenza non è più quella metafisica di Dio, di cui si faceva interprete il clero, bensì è terrena, calcolata e che non necessita di interpretazioni: essa si spiega da sé. Al posto delle conventicole di caritatevoli mogli di capitalisti ora troviamo parametri per calcolare l’efficientamento del bene, esercizio di una razionalità sofisticata. A questo plus di raffinatezza però non corrisponde alcun senso di equità, bensì il calcolo dell’ottimizzazione degli sforzi per determinati fini. Al fine del longtermism è sacrificato questo principio di equità, in vista della massimizzazione del bene. Un modo di porre il problema che ha una sua matrice gesuitica nell’idea che ciò che conta è il fine, indipendentemente dai mezzi utilizzati.

È sull’oscuramento di questa problematica che assistiamo allo sviluppo di nuove forme di beneficenza che intaccano le strutture stesse della democrazia. Un caso che ci riguarda da vicino: quello dell’OMS che viene visto come un ente supra partes, interessato alla salute pubblica e che detta l’agenda delle politiche sanitarie degli stati. È un ente globale, di matrice USA che incide sulle politiche sanitarie dei governi e che confligge con grandi potenze avverse. Ma sappiamo che è finanziato da privati, in primis da Bill Gates che ha degli interessi nello sviluppo delle biotecnologie. Questi conflitti di interessi sono così giganteschi in termini morali ed economici, da non essere nemmeno considerati dai governi degli Stati e tanto meno dall’opinione pubblica. Di fatto producono un potente effetto di infantilizzazione nelle istituzioni locali che non hanno il potere di contrapporsi a quanto viene prescritto. Questo strapotere deriva innanzitutto dall’asservimento della grandissima parte degli organi di comunicazione che, spesso, sono di proprietà degli stessi investitori interessati.

E Gates è un prototipo dell’effective altruism, considerato come un benefattore, cioè uno che fa beneficenza. Ma ammettiamo pure che Gates sia una persona illuminata e che investa eticamente in campi di interesse pubblico. Il punto però non è valutare la sua moralità, una personalizzazione anche qui infantile di un problema ben più vasto, ma capire a quali pericoli per la democrazia e per gli equilibri sociali siamo esposti in assenza di organi di mediazione. Chi ci garantisce che la concentrazione di potere che si trova nelle mani di quella persona, data per morale e illuminata, non passi nelle mani di un despota tecnologico in grado di condizionare le sorti di milioni, se non di miliardi di persone? Un semplice ragionamento, credo fondato, ci mostra che problemi come il climate change o altre questioni fondamentali sono irrisolvibili e mal poste. Ma devono essere poste a sintomo di disfunzioni che si trovano da altre parti. È bene evidenziare quindi dove sta il problema. A fronte di questi ragionamenti, l’evenienza di un totalitarismo biopolitico non dovrà essere interpretato come una rottura della storia, allo stesso modo in cui non lo è stata il Nazismo.

Il caso Covid ha segnato un punto di svolta nel processo di autonomizzazione delle grandi oligarchie tecnocratiche rispetto alle sovranità nazionali.

Le opposizioni alle campagne vaccinali e all’uso indiscriminato del green pass, stanno tutte qui: in una rivolta, più o meno consapevole, contro i poteri forti e trascendenti che condizionano le politiche locali. In questo senso il tentativo di riappropriarsi di istanze democratiche e le istanze sovraniste delle destre hanno trovato un punto di coincidenza e di concordanza. La cosiddetta sinistra, ancora una volta, è uscita con le ossa rotte da questa prova. Il diktat sulla salute pubblica ha avuta la meglio su ogni altra considerazione e l’aver violentemente demonizzato i no-vax ha avuto il desiderato effetto di oscurare le vere questioni, prima di tutto economico-sanitarie e poi politiche. È bene vedere che la radice di questi estremismi affonda in quella zona grigia in cui interessi privati e bene pubblico si sovrappongono senza mediazione. Nel caso delle biopolitiche in senso stretto, cioè quelle sanitarie, il piano provvidenziale diviene particolarmente evidente. Le grandi agenzie sanitarie e di controllo della salute pubblica si comportano come enti trascendenti votati alla salvezza delle popolazioni. La questione della salute/salvezza è evidentemente la trasformazione della questione della salvezza dal peccato. Chi più del no-vax ha rappresentato in questo tempo il modello dell’uomo reprobo? Non essere adeguati al piano sanitario, da questione tecnica è diventata questione morale. Su questo punto abbiamo quindi una nuova riproposizione del piano provvidenziale, ma in termini calcolabili. Il longtermism che altro è se non l’espressione di una preoccupazione di garantire il futuro e la salvezza dell’umanità? Bisogna credere che tale preoccupazione sia reale, come lo è per i protagonisti e fondatori di questo movimento. Ma l’antico adagio “la via per l’inferno è lastricata dalle buone azioni” non è mai stata così vera. Da quale punto di vista qualcuno può decidere cosa è meglio fare, quali obiettivi perseguire e a chi dare la possibilità di salvarsi?

Ultima nota sintomatica: per fare parte del gruppo dei salvatori devi essere vegano o, alla peggio, vegetariano!





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