Brad Pitt è il rovescio di Telemaco

 

Il 5 e 6 febbraio scorsi la Scuola di filosofia di Trieste ha offerto il suo spazio a riflessioni a cavallo tra filosofia e psicoanalisi. Il tema di fondo di quest’anno è L’altro in noi.

Sono stati così convocati i luoghi della riflessione psicoanalitica (lacaniana per lo più) utili a declinare la questione.

Uno dei protagonisti di queste riflessioni è stata la figura di Telemaco. La sua vicenda è presto delineata: Ulisse è in giro per il Mare Nostrum da circa vent’anni. È il tempo che manca da casa, da Itaca, l’isola da cui proviene. L’oikos, la dimora, il luogo dell’amore coniugale e filiale è preda di un violento stravolgimento: i Proci insidiano Penelope e consumano i beni della reggia, mentre Telemaco, dominato da un’apatia depressa, non è riuscito a farsi garante della legge incarnata dalla figura paterna. Telemaco è così imbozzolato e dominato da 3 fantasmi: il primo è quello del padre assente, tanto fisicamente quanto in termini di rappresentanza simbolica della legge; il secondo è quello dell’incesto, poiché i Proci sono suoi coetanei e il desiderio di possedere Penelope, come atto di violenza che segna la supremazia sul femminile, proietta in Telemaco questa immagine impossibile che lo trasferisce nel corpo della madre; il terzo, congiunto anche, ma non solo, con la dissipazione dei beni materiali della casa, riguarda l’indegnità di essere erede di suo padre. La sua nostalgia è al tempo stesso sguardo rivolto al passato e autocommiserazione per la propria condizione pietosa e dolorosa. I primi quattro libri dell’Odissea sono dedicati a raffigurare tale situazione che ad un certo punto si sblocca: Atena, nelle spoglie di Mentore, convince Telemaco a mettersi per mare e ad andare a ritrovare le tracce del padre presso chi lo aveva incontrato nel corso del tempo. Il mare è un elemento fondante in questo primo romanzo di formazione: è il simbolo della sehnsucht di Telemaco: il desiderio ripiegato che lo avvince a se stesso. Il mare oscuro è il simbolo stesso del desiderio, parola che, etimologicamente, sta ad indicare la condizione dei naviganti che hanno perso il riferimento alle stelle: de-sidera, cioè assenza di stelle, l’essere posti al di fuori del rapporto con le stelle. Il desiderio è anche ciò che si sottrae alla legge morale dentro di me al pari di un cielo privo di sidera, un cielo che non mostra la legge fuori di me. La parola tedesca è particolarmente indicativa e non trova un vero corrispettivo in italiano. Nella nostra lingua il desiderio è già di per sé qualcosa che ci muove verso una meta, anche se un vero oggetto del desiderio non esiste: esso per definizione è inesauribile e, per opposizione, rimanda alla finitezza dell’esperienza umana. Al contrario sehnsucht rappresenta uno stato d’animo misto, in cui convivono i termini del desiderio e della nostalgia, ma anche della brama e dell’aspettativa. Suchen significa infatti cercare, ricercare, aspettarsi che, mentre il verbo sehnen rimanda al tendere, al bramare, al protendersi. Nella sua composizione la parola tedesca rimanda perciò all’intimità di un desiderio di desiderio, che svuota totalmente la pulsione di qualsiasi oggetto e in cui il soggetto è perduto. L’oggetto perduto totalizza così la scena di una coscienza che possiamo denotare come depressa. La forza di Atena/Mentore lo fa uscire da questo brodo tiepido, dando uno scopo alla sua volontà sopita: ritrovare il padre per ristabilire le prerogative della legge. È una prospettiva che rigenera il senso della propria vita e configura in modo preciso l’oggetto perduto del desiderio. Telemaco così si proietta nel desiderio del padre di fare ritorno a casa. Il momento del loro ricongiungimento e riconoscimento è particolarmente significativo, poiché Atena provvede a trasformare Odisseo, lo ringiovanisce: gli diede giovinezza e prestanza; / d’un tratto fu bruna la pelle, le guance si stesero, / nera divenne intorno al mento la barba” (XVI 174-176). Telemaco si stupisce della metamorfosi dell’ospite e lo considera un nume. Ma Odisseo risponde: “Non sono un dio, no: perché m’assomigli agli eterni? / Il padre tuo sono, per cui singhiozzando / soffrii tanti dolori per le violenze dei prìncipi” (vv. 187-189).

C’è un effetto contraddittorio in questa scena in cui il Padre, per essere riconosciuto deve essere visto più giovane e quindi rispondente ad un’immagine infantile di Telemaco. Vent’anni sono passati, ma la dea abbatte lo iato generazionale e permette che entrambi si rispecchino nella giovinezza e nel vigore virile, cioè la condizione necessaria per istituire la legge e il potere sulla polis. È una scena inoltre in cui il rispecchiamento prelude alla confusione dei ruoli di padre e figlio: solo con il pieno riconoscimento del padre, Telemaco può ora aspirare all’eredità che Odisseo gli lascerà nel momento in cui sarà debole, veramente vecchio e, infine, morto. In questo passaggio troviamo qualcosa di rassicurante, poiché la continuità dell’ordine della polis è garantita dal riconoscimento della legge del padre da parte del figlio. È quest’ultimo però che permette al padre di riprendere e di occupare di nuovo il posto della legge. Come a dire che il figlio è votato al sacrificio per restituire alla polis il suo ordine. È questa prospettiva che Recalcati1 assume quando mette a confronto i due figli per antonomasia: Edipo e Telemaco: il figlio cattivo e quello buono, il portatore e trasmettitore del trauma e quello del suo discioglimento virtuoso in un amorevole rapporto reciproco.

Per Recalcati, assenza di desiderio e assenza di castrazione vanno a braccetto, così Telemaco è un punto-luce nell’affannosa ricerca del proprio posto: l’eredità paterna è l’eredità della legge che il figlio riconosce come indispensabile per progettare un futuro.

Questa legge non verrebbe trasmessa con l’esercizio della forza, nell’ottica del padre-padrone, ma attraverso la testimonianza della vita stessa del padre che, riconosciuta nel suo valore intrinseco, dona al figlio il suo compito di introdurre la novità – il compito delle nuove generazioni – e la continuità della tradizione.

In questo senso Edipo compie il gesto opposto: spezza la tradizione, mantenendola illegittimamente in vita: lui stesso è lo sposo e il padre, pur essendo figlio, nel totale disconoscimento dell’eredità paterna. Telemaco è il figlio buono, Edipo il cattivo erede.

Vi sono poi altre due figure dell’eredità mancata, quella di Narciso e quella dell’anti-edipo. Il primo perde l’altro occupato com’è a cercare l’amore esclusivo per se stesso. L’anti-edipo invece sarebbe un gesto di ribellione nei confronti del padre che permetterebbe l’accesso ad un godimento privo di legge, quello che Recalcati indica come regno della pulsione acefala e del plus-godere, un più di godimento che assume in sé il desiderio di morte. L’obiettivo polemico è soprattutto il famoso testo di Deleuze e Guattari, l’Anti-Edipo, o meglio il deleuzismo, cioè i flussi e i movimenti derivati dall’impostazione che vede il desiderio come affermazione e non come mancanza, che sfociano in definitiva nel discorso del capitalista, gettandosi tra le braccia del consumo illimitato. Essere contro il padre implica perciò estrarne la parte più tossica e l’illusione di una padronanza assoluta sulla propria vita.

La legge della castrazione, la legge del padre, è, in definitiva, ciò che regola la felicità, garantendo un rapporto all’eredità.

Ma andiamoci piano!

La condizione dell’evaporazione del padre, evento traumatico che ha generato riflessioni come queste e un’interrogazione sul figlio in rapporto al padre e sul suo destino (le retoriche insopportabile sui giovani non cessano mai!), ha però una matrice storica ben determinata. Questa matrice, una sorta di punto iniziale di un processo di dissoluzione che non ha fondo, lo ritroviamo negli esiti della seconda guerra mondiale. Credo che troppo spesso ci si dimentichi che gli anni ‘50 sono stati preparatori per il cosiddetto ‘68 e rappresentano un tentativo di chiudere i conti con un’atroce stagione in cui la volontà dei padri ha generato la più immane catastrofe della storia dell’umanità. Non si tratta solo di numeri, i milioni di morti, ma anche del modo in cui questi numeri si sono prodotti, cioè del tenore etico e morale che li hanno resi possibili. Si è trattato di una rivolta altrettanto gigantesca di quella introdotta dalle rivoluzioni totalitarie. La mia generazione, che è anche quella di Recalcati, e anche quella prima, in virtù degli eventi che le hanno precedute, hanno creato una rottura con l’eredità paterna. La morte del padre del resto è un corollario della morte di Dio, che anticipa profeticamente le dissoluzioni e le catastrofi che ormai abbiamo alle spalle.

Detto questo, puntare l’indice su Deleuze-Guattari, pur salvando alcuni aspetti della loro critica alla psicoanalisi, assomiglia a quelli che hanno voluto costruire un filo di continuità tra il super uomo di Nietzsche e il nazismo. È un’operazione illegittima, poiché tradisce lo spirito dell’opera, la cui valutazione deve saper distinguere da eventuali eccessi interpretativi, ammesso e non concesso di far coincidere il nomadismo identitario e il concetto di deterritorializzazione con l’assunzione acritica del discorso del capitalista.

Occorre dirlo con chiarezza: l’Anti-Edipo non è un libro che nega l’edipo, anzi lo moltiplica all’infinito nella struttura stessa della società, lo disloca al di fuori della famiglia e ne fa vedere i limiti, e per questo è un discorso antitetico non all’edipo in sé, ma a quello che esso diviene nel discorso analitico.

Questo è il punto chiave. Il padre non è stato ucciso, ma si è suicidato, ha soppresso da sé la legge della parola, lui per primo ha infranto la legge della castrazione. Il figlio, da questo punto di vista è l’erede del nulla, la sua responsabilità è fare i conti non con un’assenza, che presuppone pur sempre, come in Telemaco, un’antica presenza; l’eredità di nulla ha invece a che fare con l’annichilimento, la Vernichtung di quella che è una figura dell’impossibile.

È troppo facile e troppo poco scomodo accendere una volta di più i riflettori sul volto del figlio, oscurando nel cono d’ombra che questa luce produce, la responsabilità del padre.

Sia chiaro, questo non è un discorso assolutorio per le cattive abitudini del figlio, poiché il suo compito, ciò che lo rende degno, è esattamente la responsabilità del nulla, la cosa più difficile da sostenere; in questo senso il discorso del capitalista trova senz’altro il terreno più fertile, ma questo lo possiamo dire solo se ampliamo l’orizzonte riflessivo.

Allora dobbiamo uscire, credo, dalla vulgata jungo-freudiana che interpreta l’Edipo come vicenda e struttura familiare che funziona come dispositivo di assoggettamento e di giusta normalizzazione del desiderio. Questa prospettiva, per darsi come consistente, deve rimuovere una parte fondamentale della tragedia a cui si ispira.

La tragedia sofoclea ci dice che Edipo ad un crocevia incontra un uomo a cui non vuole cedere il passo: per una arrogante rivendicazione di preminenza, Edipo uccide Laio che è in realtà suo padre, realizzando così l’antica profezia secondo cui Laio sarebbe morto per mano del figlio. Da questo atto delittuoso segue lo svolgimento dell’azione drammatica che comprende l’incesto, la progenie incestuosa, il suicidio simbolico di Edipo e il suo allontanamento dalla città. In pochi tratti troviamo tutti gli elementi della tradizione psicoanalitica: la colpevolizzazione del figlio, l’infrazione della legge che getta la polis nel caos, l’auto lesionismo che deriva dalla soggettivazione della colpa. Tutto inizia e finisce nella triangolazione padre-madre-figlio. Tutto ciò suona particolarmente confortante in una prospettiva borghese come quella in cui si è mosso Freud. Uscire da questa prospettiva implica rivedere radicalmente l’impianto di questa struttura. Mi sembra un sintomo troppo poco esplorato l’eccesso di attenzione che viene riservata a Edipo, poiché Sofocle nell’Edipo re ha voluto segnare solo una tappa di una vicenda molto più complessa.

Laio porta con sé una maledizione: non solo ha tentato di far fuori il figlio Edipo per mantenere il potere (Sofocle), ma è anche uno stupratore nel racconto che ne fa Euripide e che Sofocle riprende. Al centro il potere di governo su Tebe. La città viene occupata illegittimamente da Anfione e Zeto. Laio viene messo in salvo prima delle violenze e ospitato dal re Pelope che ha un figlio, Crisippo, di cui Laio si innamora. Lo porta con sé a Tebe e lo fa oggetto di stupri, a causa dei quali il ragazzo si suicida. Una trama non dissimile da quella che avvolge Hitler e sua nipote Geli Raubal.

Lacan ha rivisitato il mito di Edipo, capovolgendolo in parte: è il padre che si frappone tra la madre e il figlio per scongiurare l’incesto ed allontanare così lo spettro di un esautoramento dalla propria posizione di potere. Lacan distingue tre fasi dell’edipo; la seconda che qui interessa implica la doppia interdizione da parte della parola del padre: una è rivolta al bambino, l’altra alla madre. La figura del padre avrebbe così la funzione di impedire alla madre di fare uno con il figlio. Nella richiusura del cerchio generativo la parola del padre verrebbe messa fuori gioco e con essa lo statuto di potere che essa comporta. Non vi sarebbe allora posto per il padre. Questa prospettiva si avvicina maggiormente al racconto sofocleo, ma non è ancora tutto.

L’inconscio edipico contiene in sé, incriptato, il trauma originario della stirpe che è rappresentato dall’omosessualità pedofila e omicida di Laio. La maledizione di Laio è ciò che si trova all’origine della saga tragica che arriva fino al suicidio speculare a quello di Crisippo da parte di Antigone che si oppone a Creonte, fratello di Laio. Il ristabilimento del potere sulla polis, sul sistema, è quindi genealogicamente macchiato del sangue del figlio, un tema che il racconto biblico declina in modo parzialmente diverso quando rappresenta il tentativo di figlicidio (non esiste nemmeno una parola adeguata per descrivere questo atto, mancanza sintomatica della lingua) da parte di Abramo, spinto come al solito dal sadismo paranoico del suo Dio: l’ordine della polis è un atto arbitrario di Yhaweh e non una conquista tragica dei suoi cittadini.

Ecco allora che l’anti-edipo non è che una metafora per dire che l’edipo freudiano, e in parte lacaniano, non esiste, bensì esiste il padre assassino, la trasmissione trans generazionale del trauma e la fedeltà dei protagonisti della tragedia al fantasma che la rottura traumatica del sistema ha reso possibile. Quando Lacan, Seminario V, afferma che Edipo si trova gettato in una struttura, senza che ci possa fare nulla, forse non pensava alla sua piena ampiezza, riferendola di fatto, ancora una volta, alla famiglia nucleare. Rendendo giustizia al ciclo completo delle tragedie sofoclee, tale struttura avvince in sé più generazioni piegate nel loro destino dalla fedeltà al trauma originario costituito dalla pedofilia omosessuale e omicida di Laio.

Da questo punto di vista l’attuale dibattito intorno alla piaga della pedofilia nella Chiesa, più che rappresentare una degenerazione incidentale all’interno di una struttura irrigidita, appare il disvelamento, l’apocalissi della Chiesa stessa: essa mette in scena pubblicamente questo sfondo inquietante della struttura di potere, facendosi sintomo di una circolarità del potere maschile in antagonismo con la minaccia della circolarità autoreferenziale del femminile.

È su questo sfondo che mi pare interessante ricorrere alla trama del film di James Gray, Ad astra, un film del 2019 che utilizza la metafora fantascientifica per parlare del ritorno del figlio e che declina in modo originale il processo di rottura della circolarità paterna.

Il protagonista assoluto è Brad Pitt, sex symbol che qui appare emaciato e depresso, avvolto in una continua automeditazione melanconica. La scena inziale è simile a quella in cui si presenta Telemaco: il futuro è congelato in un presente senza scopo e la volontà inscritta nel desiderio pressoché assente. Esteriormente Pitt, che incarna il colonnello Roy McBride, è un ufficiale assolutamente efficiente che sa escludere le emozioni dai propri compiti professionali e dalla vita familiare, che è in crisi: la moglie vuole andarsene perché suo marito pensa solo al lavoro. È perciò assente sia come marito che come padre. Ciò che rompe questa monotonia sono le notizie che arrivano dallo spazio profondo: suo padre, eroe della cosmonautica, avendo varcato i confini del sistema, sembra essere collegato con degli strani picchi di energia di antimateria che rischiano di scardinare il sistema stesso. L’agenzia astronautica chiede perciò a Roy, al pari di quanto fa Mentore-Atena con Telemaco, di andare in missione segreta alla ricerca di suo padre e di mettere fine al Progetto Lima che ormai è fuori controllo e rischia di compromettere la stabilità cosmica. Nel corso di questa traversata nel buio assoluto dello spazio vuoto ed esterno, la sehnsucht di Roy inizia a trasformarsi in una progressiva interrogazione esistenziale su di sé, sulla paura che attanaglia tutti e sul proprio ruolo in un’avventura drammatica che è sia personale che collettiva: nel ritrovamento del padre, Clifford McBride, non ne va solo dell’identità e della sopravvivenza del figlio, ma anche di quella dell’intera civiltà, la polis cosmica.

All’inzio Roy nega qualsiasi problema derivante da un’impresa che lo coinvolge anche personalmente. Le fasi della narrazione sono scandite da numerosi test psicologici che il colonnello supera, eccetto, come vedremo, quello finale. Il figlio dimostra così di non essere integrato con il suo inconscio, che invece emergerà progressivamente nell’attraversamento dello spazio vuoto.

Nella prima fase di questa traversata è accompagnato da una sorta di guida mentore interpretato da Donald Shuterland che, durante uno scontro con dei pirati su Luna, ha un attacco di cuore ed è costretto a rinunciare all’impresa. Roy malinconicamente e un po’ sarcasticamente dice «meno male che il colonnello mi doveva sostenere!».

Nella traversata da Luna a Marte Roy riceve l’ordine da parte dell’agenzia di eliminare suo padre, poiché è stato stabilito che ormai sia fuori controllo.

Il monologo interiore dà forma ad una domanda: «era il migliore di tutti, è quello che è andato più lontano, [...] cosa avrà visto […]. Si è rotto qualcosa in lui o è sempre stato così? Mi aveva promesso che avrei partecipato alle sue ricerche, poi il silenzio». È una domanda sull’identità del padre che annuncia un sospetto: suo padre potrebbe essere sempre stato fuori controllo. Si affaccia così una tremenda meditazione e un dubbio sull’irraggiungibilità del padre e sulla sua dimensione altra, impossibile da dominare.

L’astronave di Roy fa tappa su Toro per rispondere a una richiesta di aiuto e verificare un incidente. Roy esce nello spazio vuoto e si affaccia alla nave in difficoltà e qui vediamo una delle immagini più belle e suggestive di tutto il film: sulla visiera del suo casco si vede riflessa l’immagine dell’oblò del portellone: da fuori l’astronauta sembra Polifemo, dotato di un unico occhio. L’essere con un occhio solo è l’essere dalle molte parole e dai molti canti. E difatti Roy per la prima volta viene espropriato dalla sua padronanza e si fa Nessuno avvolto dalla paura e da narratore nella sua interna meditazione, diviene assoggettato a esperienze che controlla a malapena. L’equipaggio è privo di vita e Roy viene aggredito da un gibbone, una cavia di laboratorio, che sembra infischiarsene delle leggi del vuoto: vive in assenza di atmosfera ed è estremamente aggressivo, cerca di uccidere Roy che registra: «c’era tanta rabbia, la conosco quella rabbia, l’ho vista in mio padre e in me. Sono arrabbiato per il suo abbandono. Se la metto da parte tutto quello che vedo è angoscia. Sono isolato, senza rapporti». Il gibbone si connota allora come la proiezione psichica della forza violenta del padre, della sua aggressività omicida che Roy riconosce come sua propria. Ma è il padre, è già l’incontro con il padre? Assolutamente no, si tratta di una scorza immaginaria che Roy affronta nella prospettiva terribile di un incontro reale. In questo momento Roy esprime un proposito: «Non voglio essere come mio padre». Il rifiuto dell’aggressività genera in Roy un moto di repulsione del padre, incarnando così lo stereotipo dell’anti-edipo che contesta la legge. Ma anche questa fase di ribellione dovrà essere superata e sostituita da altre esperienze che vengono prefigurate dalla tappa su Marte, il pianeta degli alieni per eccellenza. Qui, all’interno della base, Roy attraversa un enorme spazio desolato pieno di scaffalature vuote e costruite con legno dimesso. L’ultima tappa di quella che appare sempre di più come un’iniziazione nell’isolamento solitario dello spazio vuoto, è caratterizzata dall’assenza dell’archivio, di ogni riferimento al conosciuto, dall’oltrepassamento della storia e dello spazio fino ad allora noti, in cui il padre stesso si è spinto, generando il pericolo mortale per la civiltà.

A questo punto Roy capisce di essere strumentalizzato dall’Agenzia per i suoi fini di stabilizzazione del sistema, ma comprende anche di trovarsi in una posizione ambigua, poiché non sa se vuole ritrovare veramente il padre o liberarsene completamente. L’immagine di Telemaco è qui corrosa dall’interno: il dubbio amletico gli impedisce di sapere cosa farne del padre una volta che si trovasse faccia a faccia con lui. Per Telemaco e per Telemaco-Recalcati questo dubbio non si dà: è una figura a tutto tondo il cui destino e il cui compito sono chiari. Qui invece, nel luogo dove non vi sono ombre, ma una infinita trasparenza oscura, ogni cosa appare doppia.

Invia a suo padre dei messaggi concordati assieme all’agenzia che però non vuole comunicargli se c’è stata risposta. Il sistema si interpone e vorrebbe occultare l’esito delle comunicazioni concordate con Roy. Roy allora si ribella: vuole sapere se suo padre, che in un moto di tenerezza chiama tra sé papà per la prima volta, ha risposto e cosa ha detto. L’istituzione cerca di impedire a Roy di compiere un gesto pericoloso per l’esistenza stessa del sistema. Per la prima volta il test psicologico è negativo e l’angoscia galoppa senza freno. Viene a sapere che la sua nave verrà riempita di testate nucleari con l’intento di distruggere il Progetto Lima e, assieme ad esso, anche suo padre. La violenza distruttrice dei picchi di antimateria deve essere domata con altra distruzione.

È qui che Roy decide di infrangere la legge e di gettarsi in una ricerca senza garanzie, verso una navigazione tragica del cui esito Roy sa di non avere alcuna certezza.

L’inquietudine aumenta perché dall’agenzia viene a sapere che l’equipaggio di suo padre è morto a causa dell’impossibilità di sostenere le condizioni di un’esplorazione oltre i limiti e dell’assenza della casa. L’unheimlich assume qui l’aspetto della deriva nello spazio vuoto in cui nessuno può essere più conforto per l’altro. Addirittura è il padre ad aver ucciso l’equipaggio ormai in preda alla paranoia. Esso era costituito anche dai genitori della giovane che aiuta Roy a impossessarsi del razzo che lo porterà fuori dai confini del sistema: «quel mostro minaccia tutti noi […] ora è un tuo fardello». Ecco allora che ritorna l’aspetto inquietante dell’eredità: si tratta di emendare l’omicidio perpetrato dal padre. Solo il figlio può farlo, sostituendosi a lui. E difatti Roy entra in una piena crisi identitaria in cui dice a se stesso: «Vengo spinto sempre più dal sole, verso di te. Sei vivo... devo accettare il fatto di non averti mai conosciuto, oppure io sono te, sospinto nello stesso buco nero.”

Il padre ha abbandonato Roy come Roy ha abbandonato la sua famiglia. Ecco la struttura della trasmissione e della fedeltà che si riaffaccia. L’auto colpevolizzazione di Roy aumenta in proporzione al suo avvicinamento al padre. Per compiere l’incontro deve abbandonare la nave madre Cepheus, deve farsi a-Cepheus, deve entrare in relazione con le proprie pulsioni; ma questo moto di avvicinamento, lungi dall’essere l’esplosione vitalistica paventata dalla psicoanalisi, il delirio del godimento perverso e mortale, conduce all’esperienza terrorizzante del vuoto. «Sono terrorizzato di affrontarlo, il figlio soffre per i peccati del padre». La pulsione acefala allora, lungi dal portare in superficie qualcosa di incontrollato e di esplosivo, è latrice innanzitutto della struttura di dominio del fantasma del padre.

Roy abbandona tutto e si trova nello spazio vuoto nel tentativo di entrare nella nave Lima. Quando entra si sentono le note di I’ve got a Gal in Kalamazoo, uno swing, festoso esempio dell’ottimismo americano degli anni ‘40, che rende la scena doppiamente carica di tensione (Kubrick qui insegna!), in cui cantano due neri tiptappanti e dove il testo è la promessa gioiosa di trovare una ragazza.

Il padre si fa vivo nella nave: «Roy sei tu?», come se fosse appena rientrato a casa. È solo e dice di star cercando di fermare il picco. Con i suoi ha tentato di fermare la fusione del reattore generando però una catastrofe. In realtà mente, la catastrofe è l’omicidio dei compagni. Allo stesso tempo dice la verità, perché la fusione è esattamente la scomparsa insostenibile di ogni differenza. Roy con fare bambinesco e imbambolato dice che riuscirà lui a fermarla e a riportare il padre a casa. Cioè Roy promette a se stesso, prima di tutto, di ristabilire le differenze e di dare quindi un volto al padre, di farlo rientrare cioè nell’alveo della legge. Ma c’è ancora un diaframma che Roy esita a valicare, stallo che il padre si incaricherà di superare: il padre, un magnifico Tommy Lee Jones, gli risponde: “A casa? Questa è la mia casa! Il viaggio è di sola andata. Di te e tua madre non mi è mai interessato niente. Non ho pensato a casa neanche una volta! Ho trovato il mio destino e ho abbandonato mio figlio». Come a dire ho tradito la legge del padre a mia volta, per incontrare me stesso.

Ma il figlio ancora non cede: «Ti voglio ancora bene. Ti porterò via».

Qui, una volta di più, il padre stabilisce una differenza irriducibile che Roy non riesce a fare propria: l’idea di realizzare cose inaudite è ancora in cima alla lista dei desideri del padre. La volontà umana deve oltrepassare l’impossibile e in questa impresa il padre vorrebbe con sé il figlio. Ma di fronte a questo invito Roy indietreggia: «Noi siamo tutto ciò che abbiamo!».

Parole sagge. Si apprestano a ripartire e attivano l’autodistruzione di Lima. Escono nello spazio esterno con le tute. Ma il padre si lancia nel vuoto trascinando con sè Roy. Riemerge ancora una volta, nel finale, la volontà omicida del padre che non esita a sacrificare il figlio in caso fosse necessario. Il padre parla: «Roy lasciami andare». Lottano nello spazio, il padre vuole andarsene, il che a questo punto equivale a morire. «Sganciami, figlio mio». Roy non può far altro per salvare se stesso. Riecheggia un urlo dallo spazio. La figura del padre si allontana fino a diventare un puntino per poi scomparire.

Per un momento Roy vacilla sull’orlo del pericolo mortale: «Perché andare avanti? Perché continuare?».

Tentando un fortunoso rientro nella Lima che sta per autodistruggersi, riesce però a recuperare i dati di quell’impresa fallita e tentata al di fuori del Sistema. Ecco un nuovo archivio, una nuova storia da poter utilizzare in caso di salvezza!

«Aveva catturato dettagliatamente mondi insoliti come nessuno aveva mai fatto prima, erano bellissimi, magnifici, pieni di riverenza e meraviglia, ma sotto le loro sublimi superfici non c’era nulla, né amore né odio. Né luce né buio. Riusciva a vedere quello che non c’era e si è perso quello che aveva di fronte». Mentre sta per essere spinto verso la sua navetta dall’imminente detonazione della Lima, Roy pensa: «Attendo il giorno in cui finirà la mia solitudine e sarò a casa».

Si avvicina alla terra in una scena che ricorda il ritorno alla casa paterna sognato dal protagonista del film Solaris di Tarkowsky.

Ce la fa! Le immagini della riapertura del portellone della capsula ci restituiscono un Roy salvo e stranamente somigliante a Tommy Lee Jones.

L’epilogo edificante ci mostra un Roy calmo, equilibrato e saggio. Le ultime parole del monologo interiore di Roy sono per la moglie: « Io ti amerò. In ultra».

Scopriamo in questa narrazione una dinamica speculare rispetto al racconto che vede Telemaco protagonista. Roy non rientra in nessuno dei quattro casi presentati da Recalcati per un semplice motivo: il vero protagonista non è il figlio, ma il padre. È dal suo angolo visuale che si snoda tutta la narrazione, anche se il protagonista appare essere il figlio. Il suo stato d’animo, le sue meditazioni, l’esito per un verso tragico della vicenda, sono tutti condizionati dalla presenza tanto ingombrante quanto invisibile del padre. Il suo fantasma si materializza solo alla fine del viaggio, quando il figlio esce dal Sistema, cioè contravviene alla legge e si confronta con il Reale dell’antimateria, assumendo in sé il tema dell’impossibile identità che lo connota. Questa figura impossibile lo domina dall’inizio alla fine del viaggio nel cosmo vuoto, fino alla sua sparizione, di fronte alla quale Roy è impotente e di cui allo stesso tempo è responsabile, poiché è la ricerca del padre che fa precipitare le cose e lo fa uccidere. È il desiderio del padre, il desiderio dell’ordine della legge che viene smentito dalle parole: «Lasciami andare, figlio mio».

La metafora del viaggio nello spazio è magnificamente utilizzata per rendere lo svolgimento di una storia che è priva di punti di riferimento e che si svolge in assenza della legge fondamentale della Terra, cioè la forza di gravità che tiene avvinti e allo stesso determina precisamente il luogo e il tempo. Qui tutto si sfalda nella rappresentazione di un viaggio che è allo stesso tempo interno ed esterno.

Il ritrovamento del padre coincide con la sua sparizione, al contrario di quanto accade con Telemaco nei confronti di Ulisse. In Ad astra il figlio si fa erede nel gesto di svelare l’inconsistenza umana dell’eroismo del padre. Il figlio qui non garantisce un posto simbolico al padre, non per fallimento, ma perché la figura del padre ci porta incontro un elemento con cui la psicoanalisi stenta a confrontarsi: il padre, nelle sue intenzioni, è folle e non ha nessuna intenzione di tornare. Questo è lo scandalo che il film rappresenta. Una visione del padre umanizzata esattamente nel luogo della sua più intensa alienazione. Proprio nella destituzione finale del padre in quanto simbolo della legge, avviene un sovvertimento inaspettato: Roy assumendo vagamente in sé il sembiante paterno, è in grado di occupare un suo posto in modo nuovo. Contrariamente a Telemaco, che restituisce al padre il suo luogo nuziale e quindi la possibilità di ricomporne la legge, nel film è Roy che riconquista la posizione della legge, aprendosi ad una ricomposizione del rapporto coniugale. Va osservato che le figure femminili nel film sono scarse e l’unica degna di nota è la figlia dei genitori che il padre di Roy ha sterminato e che lo aiuta a salire con un sotterfugio a bordo della nave che lo porterà oltre allo spazio conosciuto. È questa figura enigmatica che pronuncia le tremende parole: «Vai a fermare il mostro! Ora è una tua responsabilità». Che rimandano al confronto con una volontà indomabile e folle che mette in pericolo l’esistenza stessa del Sistema.

In definitiva mi sembra che questo mito moderno del padre folle sia più prossimo alla nostra realtà, più utilizzabile e maggiormente descrittivo della nostra condizione.

L’azione del padre non si esprime in un titanismo della volontà, ma in un progetto che dissipando i riferimenti alla legge si getta in pasto al Reale e alla morte. Ma non lo fa tentando di eliminare il figlio, secondo un topos tipico del mito greco ed ebraico: qui il padre vuole portare con sé il figlio nel tentativo di realizzare il fantasma della propria replicazione infinita. Il figlio dovrebbe realizzare il punto in cui il padre ha fallito. E la richiesta è amorevole, il padre vuole Roy con sé senza violenza né coercizione. Da questo punto di vista, mi sembra che la soppressione attuale della differenza e dell’antagonismo generazionale porti con sé il gesto di un padre che non sa nulla della legge e che si pone di fronte al figlio come la possibilità della replicazione seriale di sé. Il padre della contemporaneità non introduce quindi il figlio nello spazio della legge, ma nel tempo dell’immaginario e della specularità identitaria. È l’autoreferenzialità identitaria che nel film viene trattata nelle diverse ripercussioni interiori del protagonista.

Il film ha il pregio di sovvertite l’angolo visuale e la prospettiva che lega la figura del padre a quella del figlio, indicando l’impossibilità del loro rapporto.

In questa prospettiva, la psicoanalisi, specie freudiana, è vittima di un regime discorsivo molto antico che si solidifica nel diktat: Rispetta il padre e la madre! Al contrario non esiste un comandamento, in senso culturalmente forte e che non sia solo l’espressione di una norma di garanzia del diritto, che sostenga l’inviolabilità del figlio e che affermi: Rispettate il figlio! Per questo l’assenza d’uso della parola “figlicidio” è un sintomo eloquente. In questa prospettiva il continuo appello mediatico ai giovani, la creazione stessa di questa categoria assurda, è un atto di violenza di una società completamente opaca che sta rivelando progressivamente lo stesso male del padre folle. Sotto il nome della propria legge si nasconde l’arbitrio prometeico e violento di cui la tecnica è espressione fondamentale. Anche per questo il film ha un plus di valore, svolgendosi la narrazione in ambienti artificiali e connotati da un altissimo impatto tecnologico, eccetto l’archivio vuoto che poteva dare testimonianza di un passato di cui non siamo più in grado di rintracciare le coordinate.

Ecco quindi l’eredità del figlio: un vuoto di legge, generato non dai Proci che insidiano il sistema, ma dal padre stesso. Ogni ritorno alla figura del padre assume così l’aspetto di una cattiva comprensione della posta in gioco: la possibilità di fare legge a sé senza che questo comporti una violenza distruttrice. La scommessa allora è una politica dell’an-arché che non significa caos anarcoide, ma comprensione della propria libertà e della propria azione. In questo senso è esatto dire che questa è l’epoca del figlio, poiché anche i padri si devono confrontare con un nulla che rischia incessantemente di essere riempito quanto prima dalla sicurezza della legge e sulle cui spalle grava la relativa eredità.

Fare un passo indietro non può che essere fatale: il ritorno al padre o del padre, come momento di ripristino delle prerogative della legge, può assumere allora l’aspetto repressivo di un potere che pensavamo di esserci lasciati alle spalle, in un tempo che, troppo facilmente, tenderemo a considerare illusorio.

1M. Recalcati, Il complesso di Telemaco,Feltrinelli 2013.


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