I cuori di Miela Reina


 
           Cuore trafitto, 1964       

Nel passaggio tra il 1964 e il 1965 si consuma un’importante svolta stilistica ed espressiva di Miela, che sarà caratterizzata da un peso sempre maggiore della narrazione discorsiva.

Ogni debito con l’espressionismo gradualmente scompare per lasciare posto alla progressiva stilizzazione delle figure. È da questo passaggio decisivo che Miela più che pittrice in senso stretto diviene una sorta di pupara al servizio delle figure che mette in scena. Emerge così anche un aspetto biografico che la lega strettamente alla Sicilia del padre, scomparso quando Miela aveva quasi 10 anni.

Credo si possano identificare in due o tre opere i segnavia di questa radicale trasformazione. Mi riferisco in particolare al passaggio tra Cuore trafitto del 1964 e Cuore come quadro del 1965.

Già i titoli ci orientano: Cuore trafitto è la registrazione di un dolore, il resoconto in pittura di un conflitto, forse un abbandono; in ogni caso è l’ultimo residuo di una venatura espressionista in cui Miela ci si mostra come soggettività concreta, con le sue ombre e i suoi dolori. Nulla ci appare più personale e soggettivo del sentimento e delle emozioni; esse sono vissute come segno di un rapporto diretto alla realtà. Eppure è proprio in questo luogo, il luogo del femminile per eccellenza, che Miela compie uno scarto: non indulge su se stessa, è in questione la verità di sé, una verità che, paradossalmente, si dilegua via via che la si vuole afferrare. Una dinamica grandiosamente espressa in Blow up.

La freccia del cuore trafitto non è quella di Cupido che suggella l’unione amorosa, ma quella che trafigge con dolore. Non si tratta semplicemente della manipolazione di un segno abusato, ma il risultato della riflessione dell’artista intorno al tema dell’amore impossibile.1 Effettivamente però la freccia di Cupido, anche nella sua rappresentazione popolare, è un simbolo ambivalente: non solo suggella, ma anche impartisce una ferita, come a dire che l’amore distrugge sempre qualcosa per realizzare le sue pretese. Nelle produzioni successive anche la freccia diverrà un personaggio che si muove e fluttua secondo la propria grammatica.

Il dipinto, quindi, condensa una stratificazione di significati: non è soltanto l’ostensione di un dolore ma anche una domanda sulla propria arte che qui, in questo preciso punto, viene sovvertita.

            Box, 1965
 

E l’esito di questo sovvertimento, quasi un esito speculare di Cuore trafitto, la risposta a questa domanda, è Cuore come quadro. Lo stesso cuore che prima era trafitto ora giace su un piano, forse un tavolo, dal quale si lascia guardare dall’osservatore, sovrastato da una tela che ne stilizza la figura: è la nascita del Cuore-bretzel.2 L’artista l’ha ritratto e se ne è appena andata, si è ritratta, lasciando lo spettatore solo con questa specie di reliquia, una sorta di deposizione. Benché questa parte del dipinto sia caratterizzato da una campitura giallo-oro, il senso di abbandono, di vaga desolazione, ma anche di estrema sospensione sono tangibili. La potenza dell’assenza è l’esito di una precisa sottrazione, allo stesso tempo di sé e delle modalità espressive fino ad allora collaudate.

Da qui in poi l’immaginazione non è più avvolta in un sogno, l’atmosfera chagalliana3 è al crepuscolo, essa prenderà il volo, risolvendo, almeno temporaneamente, il conflitto con il principio di realtà.4 Il quadro di formato rettangolare è diviso in due parti: quella di sinistra si riallaccia idealmente a Cuore trafitto e ci presenta una scena più scura. Vediamo i due morosi,5 o forse a questo punto ex-morosi, affiancati e attraversati da figurette più piccole. Sulla destra spicca il cuore rappresentato come bretzel.

Tutta la scena è complicata da altri particolari che qui non possiamo seguire nel dettaglio, ma che rispondono a quelle soluzioni rappresentative tese a rendere materiale e oggettivo il piano dell’immaginazione. Credo che, se dovessimo attribuire una data di nascita di quello che sarà infine il fumetto Storie elisabettiane, la dobbiamo trovare in questo punto, tra il 1964 e il 1965; del resto non credo sia casuale il fatto che il contenuto narrativo di Storie elisabettiane si ricolleghi direttamente a questi due dipinti: entrambi tematizzano la questione dell’impossibile dell’amore, un tema centrale nella meditazione di Miela

      Cuore come quadro, 1965

Le figurine che accompagnano le due figure principali nella parte sinistra di Cuore come quadro sono i prototipi di quelle stilizzazioni che vedremo compiute negli anni successivi e che trovano una loro prima raffigurazione indipendente e una loro autonomia in By air mail del 1966.

Se in Box il cuore è riposto e inscatolato in un contenitore il cui coperchio ci presenta l’effigie di un uomo, presumibilmente il moroso di Morosi (autoritratto) del 1964, in Cuore come quadro le cose cambiano decisamente.

Il funerale è appena avvenuto e il Cuore giace nella tomba-box. Ora inizia l’elaborazione del lutto e lo strumento di questo attraversamento è un’operazione di oggettivazione e di messa in scena di sé attraverso gli elementi scomposti del proprio universo interiore. Lungo la linea di questa lettura possiamo intendere le apparenti bizzarrie degli oggetti animati dell’ultima fase di Miela come un divertito necrologio di se stessa. Una sorta di funerale animistico nello stile New Orleans, o in quello della favola nera La sposa cadavere, messa in scena da Tim Burton. L’analisi terminale della propria soggettività, per scomposizione estrema, genera una cittadella, un paesaggio e personaggi dall’esistenza a-umana. Non è un caso che la figura del Bretzel in Cuore come quadro venga ripetuta pressoché identica in altri quadri-rappresentazione posizionati dietro a quello in primo piano. L’effetto visivo che viene richiamato da questa singolare soluzione narrativa è quello della doppia riflessione che genera una riproduzione praticamente infinita della stessa immagine, oppure il fatto di una riproducibilità anonima e reiterata della soggettività.

Inscatolamento e ripetizione che, invece di condurre ad un ripiegamento nel dolore, divengono l’inizio di quell’esercizio audace di sé che ha come contropartita la liberazione progressiva delle figure.

Il loro successivo volteggiare giocoso e ineffabile trova il proprio moto e la propria ragione d’essere in questa sorta di sacrificio della soggettività dell’artista.



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