Solitudini del femminile

 




Solitudini del femminile


Anche quest’anno, a gennaio 2022, riprenderà il suo corso la Scuola di filosofia di Trieste, diretta da Pier Aldo Rovatti. Il titolo è L’altro che è in noi. Titolo piuttosto ampio che, allo stesso tempo, orienta l’attenzione in un luogo ben preciso, dove si gioca la partita dell’ospitalità e dell’intolleranza. Questo luogo è, innanzitutto, la soggettività stessa.

Il cantiere, che quest’anno prende il nome di Genealogie filosofiche è coordinato da Raoul Kirchmayr e ha per titolo La filosofia come politica dell’istituzione familiare. Il mio laboratorio di pratiche filosofiche, a côté della proposta di Raoul, si occuperà della rappresentazione, tanto sociale, quanto individuale del femminile. In modo indicativo il laboratorio si chiama Le solitudini del femminile.

Orizzonti tematici che hanno acceso qualche malumore e delle osservazioni critiche. Buon segno! Significa che la questione della famiglia, del femminile, del ruolo della donna e dell’uomo all’interno dell’istituzione familiare è ampiamente irrisolta. Le osservazioni di amiche e conoscenti mi inducono a svolgere qualche riflessione su questo promettente avvio di anno scolastico.

Uno dei rilievi di fondo che è stato mosso è il seguente: non vi sembra strano che a parlare di donne e di femminile siano gli uomini? Certo è un’osservazione che fa effetto e che potrebbe suscitare un certo disagio in chi è il destinatario di tale osservazione.

Ma possiamo, innanzitutto, porci una domanda che qui appare centrale: il femminile coincide con la donna? Oppure ha a che fare anche con l’uomo? E se si, chi ha il potere e la legittimità di prendere parola?

Siamo in buon compagnia nel sostenere le ragioni dell’ibridamento e della mescolanza: già quel maschilista di Freud nella lezione 33 di Introduzione alla psicoanalisi del 1932, aveva detto molto. Aveva detto cose che oggi potrebbero essere ovvie: la femminilità è trasversale ai generi, così come la mascolinità; non solo, in quella lezione Freud sostiene pure che le qualità tipicamente agganciate al maschile e al femminile, restituiscono un’immagine impoverita della realtà: vi può essere un femminile passivo e un maschile attivo, classica retorica maschilista, ma anche, al contrario, un femminile attivo e un maschile passivo. Questo discorso, mi pare, per l’epoca in cui Freud scrive, è abbastanza fuori dal comune e ci restituisce un’idea di donna potente e non soltanto accogliente e passiva, in attesa e in atteggiamento puramente ricettivo. Così, in questo testo, per certi versi strano e sintomatico, anche il macho viene destituito dal suo cliché. La rappresentazione mediatica ha fatto ampiamente uso di queste conclusioni, facendo quasi sempre delle operazioni fortemente politiche, benché nascoste dietro alla spettacolarizzazione. Pensiamo solo a film come I segreti di Brokeback Mountain o A single man per avere, specie nel secondo caso, una rappresentazione interessante e virtuosa delle trasformazione della soggettività maschile. Per contro i film americani di genere d’azione e polizieschi pullulano di eroine muscolari in grado di far vedere i sorci verdi ai competitor maschili.

Tentiamo allora di rendere conto delle aree semantiche che vengono implicate in questi discorsi: maschio, uomo, mascolinità/femminilità e femmina, donna, mascolinità/femminilità.

Sembrerebbe che la coppia maschio/femmina, cioè la differenza sessuale, sia qualcosa di basico, che sta a monte delle altre differenze. Ma ci pensa Lacan a tagliare anche questo ramo quando evoca il termine di sessuazione per indicare l’effettiva e radicale messa fuori gioco di ogni riferimento biologico. Come a dire che l’identificazione per organo, i genitali, per essere espliciti, manca per principio l’identificazione di un particolare individuo.

Certo c’è uno sfondo biologico che determina delle differenze, sarebbe stupido negarlo, ma Lacan è senz’altro più cauto di Freud nel convocarle nella determinazione del processo di identificazione.

Il fatto che le nostre società avanzate, volenti o nolenti, abbiano permesso un’esplorazione dell’identità personale che ha generato una proliferazione di ibridamenti e di nomi che li contraddistinguono, non fa altro che confermare quanto sostenuto dalla psicoanalisi post freudiana.

Anche decostruire quelle catene semantiche di cui sopra ci porta verso conclusioni simili. Se la coppia maschio femmina ci riconduce alla differenza biologica, quella di uomo/donna ci orienta verso il lato giuridico dell’identificazione sociale. Il nostro documento di identità si configura così come un elemento di snodo e di congiunzione tra questi due aspetti. Il fondamento biologico viene fatto trasmigrare dal documento legale nell’ambito giuridico del riconoscimento della persona. La Costituzione italiana si basa in grandissima parte su questo fondamento. È evidente che la difesa dei diritti della persona può essere una trappola, poiché essa si fonda su quella distinzione. Quello di persona è un concetto eminentemente morale, che proviene dalla tradizione cristiana.

Esso viene sottoposto ad una profonda revisione nel momento in cui affrontiamo il terzo anello della catena: maschile/femminile. Se accettiamo i suggerimenti inaugurati da Freud, e credo sia difficile non farlo, la questione dell’identificazione di un particolare soggetto, di fatto e di diritto diviene quanto mai problematica.

Vorrei fare qui una piccola riflessione di stile, perciò di forma e di contenuto assieme.

L’uso nel linguaggio scritto di operatori come la “e” rovesciata “ə”, la scevà, al posto di “-*” e “-u” oppure della formula “o/a” e “i/e” per indicare tanto l’intenzione di fondare un genere neutro, assente nella lingua italiana, quanto il tentativo di indicare un atto di inclusione dei generi, non mi convincono.

E per un fatto abbastanza semplice: la loro introduzione è fortemente connotata dalla convenzionalità astratta della rete, mentre le trasformazioni significative del linguaggio passano attraverso le pratiche concrete degli scambi e delle relazioni. In questo modo il linguaggio è colonizzato da artifici volti a sancire principalmente di diritto la soppressione delle differenze. Ma queste differenze, anche se le possiamo trattare criticamente, esistono e fanno, appunto, la differenza. E queste differenze, nelle pratiche linguistiche, io penso sia bene che rimangano lì dove sono. L’italiano non ha il genere neutro se non in forma indiretta, come ad esempio nella parola “uomo” inteso come rappresentante del concetto, piuttosto indistinto a dire il vero, di umanità.

Quello che rimane fuori da quella catena è in realtà la coppia maschile/femminile che appartiene a entrambi i versanti della differenza. Non credo che essa possa essere simbolizzata a pieno e questo mi fa sostenere la cautela nell’uso di simboli linguistici giustapposti. È bene che qualcosa rimanga fuori dalla legalità, poiché in essa, nel suo dilagare, la vita si spegne, il che significa che l’attenzione viva per le modalità dell’altro, che è anche, e forse soprattutto, in noi, viene resa ottusa. Quei simboletti insomma ci mettono in parte al riparo dallo sforzo dell’attenzione verso le minime variazioni.

Abbiamo convocato la psicoanalisi, ma, siccome non vogliamo farci mancare niente, diamo anche alla filosofia lo spazio di un discorso che le spetta. E questo spazio può essere occupato, tra alcuni altri, da Deleuze che sul corpo senza organi, il soggetto reticolare e rizomatico e la variazione molecolare ha creato un discorso sull’altro che oggi andrebbe maggiormente valorizzato.

Un uomo diviene uomo, ma anche una donna diviene uomo, così come diviene animale. Questa compresenza e ospitalità di generi e specie diverse mi piace e mi fa sentire a mio agio. Del resto non amo la possibilità che queste convivenze interne ed esterne vengano cristallizzate dalla legge. Il rapporto tra persona e impersonale indicato dall’ultimo anello della catena, potrebbe anche essere sintetizzato dalla frase: date a Cesare quel che è di Cesare, ma lasciate alla vita quanto le appartiene.

Ecco allora il richiamo a quelle poche righe di presentazione al laboratorio: la Vita è oggetto di tabuizzazione in quanto si costituisce all’interno di momenti contraddittori, e la contraddizione oggi è mal tollerata in tutti gli ambiti. Sostengo così che il lavoro intorno all’interdetto cristallizzato nel concetto di tabù, il tentativo di forare la corazza linguistica, sia un lavoro eminentemente del femminile. Per questo il titolo Solitudini del femminile mi pare abbia senso.

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