Pastoralità e governo. Una prospettiva genealogica


- All'origine del problema del rapporto tra cura di sé da una parte, e governo di sé e governo degli altri dall'altra, si trova la spartizione e suddivisione di due poteri, due ordini di pratiche. Una divisione, una spaltung dell'anima del mondo che vede emergere il potere pastorale a fianco di quello di governo scissi e in costante tensione, anche conflittuale. Questa suddivisione e la costruzione della reciproca indipendenza, conflitto e commistione, più o meno legittima, si trova all'origine della narrazione del mito cristiano. Possiamo legittimamente considerare che questa narrazione, in gran parte contenuta nei Vangeli, sia sinottici che apocrifi, è stata preceduta, come si può intravedere dagli stessi Vangeli, da profonde crisi politico religiose e caratterizzata dalla presenza importante per la vita religiosa e sociale di gruppi dediti alla conservazione di un sapere sacerdotale e spirituale che era tenuto in massima considerazione ai tempi dei fatti di Palestina: mi riferisco soprattutto all'ordine degli Terapeuti, che Filone esalta come esempio di βίος ϑεωρητικός cioè di vita contemplativa. Filone è stata l'unica fonte che parla dei terapeuti, fino alla scoperta dei Rotoli di Qumran e delle pergamene di Nag-Hamadi, da cui emerge una importante tensione di rinnovamento politico e spirituale già presente prima dell'arrivo della figura di Gesù e di cui i Terapeuti erano importanti rappresentanti. Filone afferma che i Terapeuti praticano una medicina superiore in quanto curano insieme l'anima e il corpo. Se andiamo più indietro nel tempo, in particolare  al periodo dello splendore egizio, vediamo assommarsi nella figura del Faraone, la figura del Capo politico, la guida di un popolo, ed allo stesso tempo quella del sommo sacerdote, ma soprattutto il Faraone, agli occhi del suo popolo, è l'incarnazione stessa del Dio, è un'entità divina vera e propria. Solo in quanto è il Dio stesso, può assommare in sé entrambi gli aspetti del potere: quello di governare tramite le leggi e quello di curare il suo gregge, il popolo. Il terapeuta precristiano assomma in sé solo una parte di queste qualità: la vita in comunità, che si distingue comunque da quella Essena per maggiore liberalità e minor rigore normativo, ne è un esempio: non solo è mediatore con lo Spirito, attraverso prescrizioni, riti e rapporti misterici con le divinità, ma ha la cura della comunità, una cura che passava attraverso le pratiche religiose, toccava tutti gli aspetti della cura di sé, tanto in ambito psichico quanto in quello fisico. Questa comunità dei terapeuti combatteva la rigidità delle norme di stampo giudaico.

Questo contrasto permea la storia del giudaismo stesso. Si può dire che il giudaismo è la forma che il sacerdozio assume nel momento in cui si fa carico dell'amministrazione politica della comunità.

Per spiegare questa affermazione occorre andare molto addietro nella storia del popolo ebraico.

Occorre risalire al passaggio dalle dinastie divino-umane dei faraoni dell'antico Egitto all'impero babilonese e neobabilonese. Se l'antico Egitto era uno stato totalmente teocratico e misterico, l'impero babilonese segna uno sviluppo di uno stato protomoderno, più centrato sull'amministrazione burocratica che sui riferimenti alla divinità, tanto che il dio Marduk, divinità principale dell'impero proteggeva la casa regnante, in modo non molto diverso da quello che pi si manifesterà nel rapporto tra Religione e Stato a partire dalla svolta di Costantino del 313 d.C.

Questa esternità del Dio rispetto al Re è il punto centrale di tutta la questione che voglio affrontare. Babilonia rappresenta insomma un primo passo nello scorporamento progressivo del religioso dall'ordine politico. È in questo processo che le vicende del popolo di Israele divengono rilevanti. Soprattutto la seconda deportazione perpetrata ai danni degli Ebrei da parte di Nabuccodonosor II nel 587, rappresenta il momento cruciale che sta alla base della formazione del giudaismo così come lo conosciamo attraverso i testi sacri e nelle sue forme storiche. Questa seconda deportazione, meno consistente della prima, avviene nel 597 a.C. e fu più traumatica in quanto coincide con la distruzione del Tempio di Salomone, simbolo e punto di riferimento dell'identità giudea. Con la distruzione del Tempio ha termine il regno della dinastia di Davide e, conoscendo l'importanza delle genealogie per gli Ebrei, è facile sottovalutare l'importanza di quell'evento.

Alla fine dell'Esilio babilonese, conclusosi grazie alle conquiste di Ciro persiano, gli ebrei si trovano divisi in due grandi ceppi, quelli del Nord che, sembra fosse costituito dalle 10 tribù e quello del Sud, rappresentato per la maggior parte dalla stirpe di Giuda.

In realtà vi erano tre fazioni post esilio: la terza era rappresentata da quegli ebrei che si erano assimilati al paganesimo babilonese.

Gli ebrei del nord erano caratterizzati da una cultura cosmopolita che faceva in parte suo il monoteismo giudaico e in parte faceva concessioni al politeismo mesopotamico.

Sono quelli che poi si chiameranno Samaritani e che rappresentavano la parte di quegli Ebrei del Nord che non erano stati deportati, i “Rimasti”, considerati dai Giudei impuri per essersi mischiati alle genti pagane. Fanno parte delle comunità Nazarena e di Galilea che avranno un ruolo importante nelle narrazioni del Nuovo Testamento.

Al ritorno dall'esilio i Giudei, nel tentativo di ricostituire un'identità nazionale, decidono di riedificare, esattamente com'era in origine, il Tempio di Salomone, distrutto da Nabuccodonosor II nel 586 a.C. I Samaritani all'inizio offrirono la loro collaborazione, che però venne rifiutata a motivo della loro impurità. Da quanto si evince dalle ricostruzioni storiche, in realtà i Samaritani appoggiarono la ricostruzione del tempio ma non la militarizzazione di Gerusalemme e la costruzione di un recinto di mura a scopo difensivo. All'interno degli stessi giudei la posizioni non erano omogenee. In ogni caso prevale la posizione dei “falchi” che nel 123 a:C. Distruggono il Tempio fei Samaritani posto sul Monte Gerezim, infliggendo una ferita che non verrà mai risanata tra le due parti in conflitto. Della rottura dei rapporti tra Giudei e Samaritani si trovano diverse tracce nel Nuovo Testamento.

È molto difficile dare un significato politico e religioso a queste controversie. Credo si possa affermare che la posta in gioco tra i due gruppi, sia stato la forma del culto all'indomani dell'uscita dalla cattività babilonese. Un culto legato al sacrificio, aperto e morbido nei confronti di altre istanze (quelle pagane nello specifico), in contrapposizione con l'esercizio di un potere pubblico centrato sulla legge e sull'idea di purezza mantenuta anche manu militari. Notevole è il fatto che i “Rimasti”, diciamo si erano contaminati con i Pagani, ma parlavano la lingua originale e rappresentavano la linea sacerdotale a tutti gli effetti ancora legittimata a compiere il sacrificio dell'agnello pasquale. I Giudei furono spinti con la forza ad abbandonare i territori ora di Ciro il Persiano e a ritronare nei territori del Sud di Israele. Avevano inoltre dimenticato la lingua tradizionale e ormai parlavano l'aramaico. Appare quasi una beffa della storia, quindi, che essi al ritorno nei vecchi insediamenti, impongano un concetto di purezza della stirpe a scapito delle genti del Nord. Si tratta della purezza dell'UNO, cioè della trasmissione massiccia di una rigida ideologia monoteista. Il conflitto tra i due gruppi si focalizza quindi su un processo di restaurazione e di irrigidimento legislativo e religioso che si sarebbe concretizzato in una saldatura all'interno della comunità giudea, tra potere sacerdotale, legislativo e militare, qualcosa che anticipa quanto si esprimerà in grande stile, oggi diremmo planetario, all'indomani dell'editto di Costantino del 313 d.C., che fa della religione cristiana progressivamente la religione dell'Impero.

Un dato importante che caratterizza il passaggio dal culto proprio del primo tempio di Salomone, al secondo tempio è che quest'ultimo inizia a somigliare alle future sinagoghe, dove il culto del sacrificio degli animali viene sostituito progressivamente dal culto del libro, dalla lettura in comunità del testo. È solo dopo l'esilio quindi che l'ebraismo, nella forma giudaica, diviene il luogo del testo e della legge di Dio stabilita dalla parola scritta, anche se la proverbiale difficoltà ermeneutica della scrittura della Torah, testimonia il passaggio non lineare tra oralità e scrittura, che non possono mai essere sovrapposte o assimilabili del tutto l'una all'altra.

Probabilmente anche gli eccessi contemporanei che vanno sotto il nome di documentalità, sono in debito con questa provenienza, e con l'eccessivo peso che la parola scritta e registrabile, ha assunto nella nostra cultura.

Di fatto la corrente giudaica acquisisce l'egemonia nel processo di ricostruzione dell'identità nazionale ebraica. Ecco quindi che sappiamo utilizzare la formula “genti di Israele” per denotare tutti gli ebrei prima della cattività babilonese, mentre con la parola “Giudei” deve intendersi la frazione di ebrei che assume maggior rilevanza politica nella fase post esiliare. Sono i Giudei che faranno del monoteismo stretto l'asse portante di quell'intreccio politico, religioso e culturale in senso lato, che qui è interessante sotto molteplici aspetti.

A lato del Giudaismo, rimane quindi l'ombra mai risolta, di un paganesimo monoteista, alla samaritana. Di fatto i Samaritani si sono sempre ritenuti i veri portatori della tradizione spirituale ebraica, tanto che il nome “Samaritano” non deriva direttamente da “Samaria”, ma da Shamerim, cioè “custodi della legge”, in quanto la loro religione si basava su una versione pre esiliare del Pentatuco, che, in realtà, è un Esateuco.

In definitiva nel mediterraneo osserviamo una continua contrapposizione tra monoteismo purista, come testimonia il suo atto di fondazione ufficiale che consiste nelle Tavole della Legge mosaica, e istanze politeiste, a cominciare da quella Egizia. Le vicende che vede protagonisti ebrei ed egiziani sono fin troppo note. Ma il fatto notevole, e ricorrente, è la continua “deviazione” del popolo ebraico dalle istanze del monoteismo, e l'adesione alle religioni degli “idoli”. Jahve punisce regolarmente la devianza del suo popolo, vuoi con carestie, con deportazioni o sconfitte militari.

Questo è lo sfondo, storico politico e religioso, che precede la nascita di Gesù, la cui predicazione, di fatto, inizia a 12 anni quando si ferma con i sacerdoti al tempio, mostrando una sapienza sconcertante e dove si compie l'atto di disconoscimento del padre da parte di Gesù. È una predicazione che, vedremo poi, si rivolge sostanzialmente ai Giudei. A tal proposito il rapporto di Gesù con i Samaritani costituisce un momento di scandalo e di rottura la cui rilevanza può essere valutata solo alla luce delle considerazioni precedenti.

Ma è bene ripartire dalle narrazioni della nascita di Gesù, che avviene in un contesto politico e religioso caratterizzato da una casta sacerdotale militarizzata e, allo stesso tempo, corrotta nei costumi, come vedremo in seguito.

Dico narrazioni perché si tratta di due diversi racconti della nascita di Gesù; una bizzarra, diciamo così, questione che, tra gli studiosi, non ha mai trovato una composizione soddisfacente: si tratta principalmente della doppia genealogia di Gesù. Infatti in Matteo viene descritta la genealogia da Abramo fino a Giuseppe e Maria, passando per Davide e Salomone. In Luca invece si risale a ritroso da Gesù fino ad Adamo e quindi a Dio stesso.

Matteo ci fa capire che la nascita di Gesù avviene in una casata aristocratica, essendo imparentato con la discendenza regale di Salomone. La genealogia si sviluppa dall'alto, da Abramo e scende fino ad arrivare a Giuseppe e Maria. In Luca abbiamo una narrazione opposta su diversi fronti: innanzitutto la genealogia parte, con moto temporale contrario a quello di Matteo, dal basso: da Maria e risale lungo le generazioni fino a Nathan e attraverso Davide, punto di incrocio delle due genealogie, fino ad Adamo e quindi a Dio stesso, suggerendo che la nascita di Gesù abbia a che fare con qualcosa che precede il peccato originale. Le ricostruzioni più accreditate per spiegare la questione fanno riferimento alla legge ebraica del levirato per cui il fratello o il parente più prossimo del defunto marito dovevano sposare la vedova per permettere la continuità della stirpe e in segno di protezione della prole. Di fatto Giuseppe non è il padre biologico di Gesù di Nazareth, quello di Luca; i commentatori che seguono questa linea interpretativa vorrebbero quindi spiegare le due genealogie con il fatto che una segue la paternità legale, mentre l'altra quella biologica. Va tenuto conto che il popolo ebraico era particolarmente attento alle trascrizioni genealogiche delle generazioni, motivo per cui errori nella compilazione sono tendenzialmente da escludere.

Il principio del levirato comunque non sana le differenze;  nemmeno l'ipotesi che dalla parte di Nathan si stia descrivendo la genealogia di Maria, cioè di una donna, appare cosa del tutto convincente.

In sintesi nessuna spiegazione è del tutto soddisfacente; a questi problemi, inoltre, se ne aggiungono degli altri, almeno due: il luogo e il tempo della nascita. Entrambi questi aspetti sono difformi nelle narrazioni di Luca e Matteo, tanto che l'idea di due bambini non è cosi peregrina, poiché già nei Salmi e nell'Enoc etiopico si fa riferimento all'attesa di due Messia: Il ritrovamento poi dei Rotoli del Mar Morto, avvalorano ulteriormente la presenza di due linee parallele, una caratterizzata dalla regalità e l'altra dalla pastoralità. Avremmo quindi due bambini: uno di stirpe regale, discendente da Salomone e che nacque in casa a Betlemme, come si legge in Marco, ed uno di origine umile, che incarna la pastoralità, nato nella grotta, dimora di fortuna a causa del sovraffollamento causato dal censimento romano. Benché residenti a Nazareth, dove Gesù viene concepito, Giuseppe e Maria devono scendere in Giudea a causa del loro legame con la casa di Davide. La dicotomia tra pastoralità e regalità, che era andata approfondendosi nel corso dei secoli, appare ora concentrata in due figure che hanno lo stesso nome e nate da coppie di genitori diversi che a loro volta hanno nomi identici. La cosa appare piuttosto strana, per non dire inverosimile, ma resta il fatto che anche le date delle due nascite non coincidono, essendo il Gesù di Marco più vecchio di circa due anni, come si evince dalle puntuali ricostruzioni storiche, che calcolano gli eventi in base alla data della strage degli innocenti voluta da Erode, alla data della sua morte, fatti messi a confronto con le date del censimento avvenuto sotto il protettorato di Quirinio.

Quelli che sono due poteri distinti, che sono andati separandosi nei secoli e che troviamo ad un certo grado di decadenza al tempo dei fatti di Palestina, appaiono nelle figure dei due Messia uno accanto all'altro e poi, nelle narrazioni che vanno dal 12° anno in poi di Gesù unificati. Gesù Uno rappresenta quindi la promessa della riconquistata unità dei due poteri, ma in una forma del tutto nuova rispetto al passato: da sola questa unificazione non sarebbe sufficiente, rappresentando solo una preparazione all'epifania del Sacro-sacrificale. Il messaggio che arriva dalla storia di Gesù Cristo, è quello di una totale deistituzionalizzazione dei poteri: cessa la casta dei pastori d'anime, raccolti in comunità chiuse come quelle degli Esseni, di cui si trovano nuove indicazioni nei ritrovamenti del 1947 e del 1978, ma cessano anche le gerarchie regali-sacerdotali rappresentate dal Giudaismo post esiliare.

È notevole osservare che entrambe le linee, quella pastorale di Nathan e quella regale-sacerdotale di Salomone, sono costellate da episodi e da personaggi che ne mettono in discussione la presunta purezza. Maria di Luca si trova in cinta prima del matrimonio con Giuseppe; nell'altra linea genealogica invece le cose sono anche più complesse poiché la catena genealogica stessa è spezzata, rispetto alla tradizione notoriamente patriarcale, dalla presenza di quattro donne straniere, tutte connotate da costumi sessuali non del tutto “irreprensibili”. Queste quattro donne sono esplicitamente presenti nella genealogia giudaica e provengono da popolazioni pagane: secondo il libro dei Giubilei (41,1) Tamar è considerata un’aramaica, Rahab è cananea, Rut moabita (Rut 1,4). Della quarta donna (Betsabea) Matteo tace il nome indicandola in rapporto al suo primo marito, uno straniero: Uria, l’Ittita, generale che Davide manda a morire per possederne la moglie, identificata con Betsabea appunto.

La purezza dell'ebraismo giudaico, punto di forza delle lotte per la trasmissione di un rigido monoteismo appare tarlato alla sua base. La discendenza di Davide e Salomone è di fatto attraversata da queste figure ambigue o con un passato problematico. Alla radice del Giudaismo stesso, nella figura di Davide, troviamo un atto di violenza e di usurpazione in cui il desiderio sessuale contamina il potere del Re. È sotto questa prospettiva che diviene interessante il rapporto di Gesù con i Samaritani, testimoniata in sostanza da cinque episodi. Il più famoso è senz'altro quello cosiddetto del Buon Samaritano, per il quale Ivan Illich in Pervertimento del cristianesimo, ha fornito un illuminante e non convenzionale commento. Il secondo importante episodio è l'incontro con la Samaritana al pozzo, Giovanni 4; il terzo è un episodio in cui l'unico lebbroso guarito da Cristo assieme ad altri e che per lui ha parole di gratitudine, è samaritano; poi troviamo un episodio riportato sempre da Giovanni in cui per disprezzo i Giudei lo apostrofano come samaritano. Vi è infine un quinto episodio in cui Cristo esorta i 12 a non predicare ai Samaritani. I commentatori cattolici spiegano questo provvedimento con la scarsa purezza dei samaritani. Ma se leggiamo solo la riga successiva in Marco 10,5, leggiamo che non è necessario andare là, ma piuttosto predicare per le pecore perdute della Casa d'Israele, cioè per i Giudei, la casata regale-sacerdotale.

I Giudei vengono allo stesso modo qualificati come “pecore smarrite” in Marco 15:24 e in Atti 13:46. Per altro dai Gentili – cioè i Greci e i pagani in genere – non occorre nemmeno andare perché per essi Cristo è la luce del mondo.

In Luca 17, 11-19 abbiamo la guarigione dei lebbrosi a riprova dell'azione pastorale di Cristo. Luca infatti era medico e la sua attenzione è proprio per questo aspetto compassionevole e amorevole della figura di Cristo, cioè il Salvatore, colui il quale si prende “Cura”. Di nuovo un samaritano si distingue dal malanimo degli altri. Senza commentare qui i diversi episodi, basti osservare che la parabola del Buon Samaritano è destinata ai Giudei che amministrano la legge. Nessun Giudeo, in osservanza della legge, si sarebbe potuto fermare a soccorrere l'uomo percosso, pena la diffida della comunità. L'episodio dell'incontro con la samaritana al pozzo si inserisce invece in tutt'altro contesto. I pozzi rappresentando luoghi in cui si sviluppava la vita, trovandosi al centro delle oasi, erano anche i luoghi in cui si celebravano i matrimoni. E proprio il matrimonio e la sessualità regolamentata socialmente è la questione al centro dell'incontro. La samaritana si stupisce che Cristo, un Giudeo appartenente alla casa di Salomone, le rivolga la parola, in un contesto di forte opposizione dei giudei nei confronti dei samaritani. Ma allo stesso tempo la narrazione mette in risalto l'onestà della samaritana che afferma di non avere marito, omettendo il fatto di averne avuti 5 e che con l'attuale sesto non è sposata. Cristo le svela di saperlo, e la raffinatezza del testo fa comprendere al lettore che questo per Cristo non è motivo di predica o di riprovazione. Lo stupore della donna si raddoppia per il fatto di sapere che il Giudeo è a conoscenza dei suoi fatti personali. Cristo per nulla imbarazzato dalla situazione di promiscuità della donna se ne va con lei per soggiornare poi per un paio di giorni presso la comunità samaritana.

In conclusione di questa prima parte, piuttosto mitico-storica, possiamo dire che la figura del nuovo Re di Israele è incarnata da Cristo in rapporto polemico con la classe sacerdotale e amministrativa dei Giudei. Anche rispetto alle comunità chiuse protomonastiche, Cristo si differenzia e si pone come esempio di nuova pastoralità universale. Questi motivi di contrasto vengono meno in rapporto alla cultura samaritana, rispetto alla quale Cristo esprime piuttosto un rapporto di fratellanza, facendo intravedere una promessa che sta al di là della spartizione e della reciproca interazione dei due poteri, come a dire che la loro riunificazione e rigenerazione non passa attraverso un rinnovamento delle istituzioni che ne garantiscono l'ortodossia e la trasmissione, ma passa attraverso una trasformazione personale e sociale insieme, in cui il rapporto di verticalità sociale è sostituito da un modello orizzontale di fraternità e in cui il soggetto stesso sa sdoppiarsi e farsi re o pastore a seconda del contesto in cui si trova. Su questo sfondo si pongono delle questioni importantissime che risuonano dall'antichità, in particolare dalla cultura ellenica, dove ancora incontriamo questa dualità tenuta insieme in unico percorso di soggettivazione, come mostra l'esempio del dialogo di Socrate con Alcibiade.

Quello che era stato il centro della riflessione Platonica sulla possibilità stessa di governare il popolo, riemerge nella storia impossibile di Gesù.

Quello che Socrate infligge ad Alcibiade, che pretende di mettersi a capo di Atene in virtù della sua genealogia regale e aristocratica, senza provvedere in alcun modo alla propria auto educazione, è l'umiliazione e lo scherno di chi ha ben presente la natura e le conseguenze di tale arroganza. Perciò Socrate bolla Alcibiade come colui che pretendere di governare senza sapere nemmeno cosa sia il governo, non avendo nemmeno mai praticato alcuna forma di governo su di sé. Il mondo Greco, attraverso il racconto platonico, si mostra come un mondo in crisi, politicamente instabile, continuamente soggetto al pericolo della tirannide, che puntualmente, per disgrazia di Socrate stesso, si realizza.

Attraverso le parole di Socrate, il mondo Greco attende una trasformazione radicale di cui non sa dare i contorni.

Sulla Croce muore un individuo, accompagnato da altri due,  che assommerebbe in sé tanto il rivoluzionario quanto il pastore, tanto il governante che sa guidare il popolo ad una meta, quanto il sacerdote che garantisce al popolo un legame con gli dei e una forma di socialità in cui nulla è più importante dell'uomo stesso e in cui l'amore e il desiderio dell'altro vengono prima della legge.

Letta bene, la vicenda di Cristo, ripropone ad un nuovo livello, la dimensione escatologica del rapporto tra governo e pastoralità, mostrando che dove i due poteri si uniscono, la storia in qualche modo si muove, avvengono trasformazioni profonde.

A questo punto occorrerebbe contestualizzare anche storicamente, i diversi modi di accesso e le pratiche relative ai tentativi di tenere assieme i due poteri. Qui facciamo fatica a generare un discorso adeguato alla molteplicità delle diverse storie che intorno a questo tema si sono prodotte. La difficoltà sta precisamente nell'intercettare quei frangenti storici, politici e sociali in cui questo elemento di orizzontalità si sia realmente generato ed abbia prodotto nuovi contesti e nuove esperienze. Tutto il '900 è attraversato dalla ricerca spasmodica e per lo più fallimentare di una “rivoluzione” che dia soddisfazione al desiderio di una civiltà che non metta a “disagio”. Fallimenti a ripetizione poiché le istanze gerarchizzanti e istituzionalizzanti prevalgono costantemente. Del resto la pastoralità, che dovrebbe rappresentare il contrappeso all'irrigidimento normativo e istituzionale, non ha mai raggiunto quella maturità che le permettesse di diventare un fattore di rigenerazione sociale e politica. Basti pensare a come questi equilibri si sono espressi soprattutto dopo il '68, che ha visto progressivamente dispiegarsi un moto di ripiegamento soggettivistico in un misticismo a buon mercato. Il cuore del '68, cioè la tensione a fare a meno dell'autorità di legge, al momento è quasi fermo, a conferma che esiste un rapporto tra limite di legge e vita del desiderio.

Ma abbiamo fatto un salto inopportuno dai fatti di Palestina ad oggi? Da un punto di vista storico senz'altro si, perché appare piuttosto improvvido saltare a piè pari due millenni di storia. Da un altro punto di vista no, perché è proprio con la fine della modernità che i temi di cui ci occupiamo sono diventati incandescenti per l'occidente e quindi per l'intero globo.

A questo punto le riflessioni fin qui svolte dovrebbero prendere due binari per seguire in parallelo tanto le trasformazioni del pensiero politico, quanto l'immaginario che costantemente domina ogni nostra discorsività relativamente a quanto qui messo in campo. Ma esiste una terza strada, che qui interessa maggiormente e che mi sembra proficua: essa fa riferimento alla psicoanalisi. Si tratterebbe di collocare la pratica della psicoanalisi, freudiana, ma non solo, all'incrocio di governo e pastorialità. Allo stesso tempo la teorizzazione, specie freudiana, risente pesantemente dell'influenza di una visione monoteista di stampo veterotestamentario. Ma proprio la frizione tra clinica e teoria psicoanalitica ne rappresenta allo stesso tempo il momento inaugurale della sua dissoluzione. È indubbio che la psicoanalisi, in modo piuttosto confuso, abbia rimesso in gioco un certo panteismo, sotto la forma di una pluralità di istanze e di forze che dominano in modo demonico la psiche. È in definitiva la psicoanalisi, per questo l'interesse privilegiato verso di essa, che ha rimesso in gioco il rapporto tra governo di sé e governo in senso lato, tra istanze individuali e soggettive da una parte, ed istanze sociali e di governo dall'altra; ed assieme a tutto ciò, la psicoanalisi ha riaperto l'orizzonte dell'idea stessa  di cura, che Freud, strada facendo, tende a separare e a distinguere sempre più dalle pratiche volte alla risoluzione di un problema, cioè dalla terapia.

Da un ebreo, in definitiva, riemerge l'apertura verso l'antica questione di una “medicina superiore”, che caratterizzava le pratiche dei Terapeuti, che curavano non soltanto il corpo, ma anche l'anima.

Che Freud sia in debito con il monoteismo ebraico è fuor di dubbio, ma è altrettanto vero che proprio all'interno di esso, la sessualità e tutto quanto di destabilizzante essa rappresenti per la legge, abbia un ruolo fondamentale tanto nella vicenda del Giudaismo, quanto nella prospettiva della psicoanalisi. All'incrocio tra legge e sessualità troviamo l'idea dell'Edipo, che rappresenta uno degli aspetti più controversi all'interno della produzione della psicoanalisi già a partire da Jung. Seguire i destini dell'Edipo ci permetterebbe di acquisire una chiave di lettura della storia non secondaria. A testimonianza che l'Edipo, abbia, diciamo così, una sua rilevanza, lo troviamo confermato dallo sviluppo della società borghese, ma che non abbia una validità universale o addirittura trans o metastorica, è confermato proprio dall'esempio della socialità dei Samaritani.

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